Due paesi, due storie, due approcci nei confronti di un mondo che cambia, due business che si incrociano. In Gran Bretagna il Governo ha recentemente dato il via alla privatizzazione di Royal Mail, le Poste britanniche. Si tratta della più importante privatizzazione dagli anni Novanta ai giorni nostri: due terzi delle azioni collocate saranno destinate a investitori istituzionali come fondi di investimento o fondi pensione, mentre il 10% del capitale verrà distribuito ai dipendenti sottoforma di azioni gratuite. Parallelamente in Italia, è notizia di questi giorni, Poste Italiane parteciperà all’ennesimo e disperato intervento di salvataggio di Alitalia. Ricordiamo che Poste Italiane è formalmente una Società per Azioni, il cui capitale è però detenuto al 100% dallo Stato italiano tramite il ministero dell’Economia. Per quanto si voglia girare attorno alla questione, l’intervento di Poste Italiane, più o meno orchestrato da Palazzo Chigi, si configura come l’ennesimo intervento diretto dello Stato nell’economia. Non per nulla British Airways ha immediatamente invocato l’intervento della Commissione europea, intravedendo nel piano di salvataggio di Alitalia un palese aiuto di Stato contrario alla normativa comunitaria in materia di concorrenza.           
Oltremanica la decisione di una privatizzazione che, come suggerito dal Financial Times “neppure Margaret Thatcher aveva mai osato”, si basa su alcune considerazioni ragionevoli, seppure sia osteggiata dai sindacati e da parte dell’opinione pubblica. Già negli ultimi anni la gestione e l’organizzazione societaria erano state riviste per cercare di rispondere alla forte crescita dei servizi online e alla concorrenza di grandi società estere più strutturate (e con differenti potenzialità di investimenti alle spalle) che hanno aperto il proprio servizio di consegne nel Regno Unito, come TNT (Olanda) e DHL (di proprietà della tedesca Deutsche Post). A tal proposito si consideri che il numero di lettere gestite ogni giorno da Royal Mail è passato da 84 milioni nel 2007 a circa 58 milioni nel 2012.



I cambiamenti tecnologici nel settore, la maggiore pressione competitiva, la necessità di ampliare l’offerta con più servizi agli utenti, hanno fatto sì che la gestione prettamente statale non fosse più sufficiente a garantire in efficienza un servizio concorrenziale. L’apertura ai privati consentirà soprattutto di raccogliere risorse altrimenti difficilmente reperibili e ormai assolutamente necessarie per effettuare nuovi investimenti, che possano garantire la sopravvivenza e lo sviluppo dell’azienda.



In un contesto di questo tipo, come anticipato da Vince Cable, ministro delle Attività produttive britannico, l’operazione «è l’unica che possa garantire la sostenibilità economica di consegne sei giorni a settimana a prezzi accessibili per tutti». Come dire, un passo indietro dello Stato, dopo la dovuta presa di coscienza.

Parallelamente cosa succede nel nostro Paese? Facciamo un passo indietro, sino al 2008, quando Alitalia stava fallendo e probabilmente avrebbe dovuto fallire. Per salvaguardare una presunta italianità del servizio, e probabilmente per interessi elettorali, il governo Berlusconi rifiutò un’offerta di Air France, che al momento era disponibile ad accollarsi gli oneri di un’azienda pesantemente indebitata e perennemente in perdita, con alcune prospettive strategiche di rilancio, più o meno discutibili. Il Governo preferì scorporare l’azienda tra una “bad company” su cui far confluire i debiti, accollandoli al Tesoro tramite la Cassa Depositi e Prestiti (quindi debiti ricaduti sulle teste dei contribuenti italiani) e una “good company” affidata a una cordata di imprenditori italiani (i cosiddetti “capitani coraggiosi”), individuati e selezionati dal Governo sulla base di criteri non chiari e quantomeno discutibili. Tanto discutibili che Alitalia ha continuato inesorabilmente a macinare perdite su perdite nel corso degli ultimi 5 anni e ora si è punto e a capo.



Tra le ragioni di un fallimento annunciato vi è sicuramente la non-decisione di cosa doveva essere Alitalia, del suo posizionamento strategico, il fatto di mantenerla in un limbo senza volerla trasformare in una low cost, ma al contempo senza investire su un piano di rotte intercontinentali a lungo raggio che costituissero una base remunerativa su cui ricostruire la redditività della compagnia aerea. Il modello di business portato avanti da Alitalia si è dimostrato troppo sbilanciato su rotte nazionali e continentali, dove non riesce a sostenere l’agguerrita concorrenza delle compagnie low cost. Fa amaramente sorridere una frase estrapolata da una recente intervista a Il Corriere della Sera di Michael O’Leary, Amministratore Delegato di Ryanair, che su Alitalia dice: “Continuare a volare su rotte dove vende il 30% dei posti con tariffe costosissime, non ha senso. Pensano che 99 euro sia una tariffa low cost, 19 euro lo è”. Senza contare l’impatto della concorrenza da parte di servizi sostitutivi come i collegamenti ferroviari ad Alta Velocità tra Roma e Milano, ad esempio.

Come recentemente sostenuto da un’analisi del prof. Ugo Arrigo dell’Università Milano Bicocca, “con tariffe minori i vettori tradizionali perdono sul breve e medio raggio dei voli interni all’Unione e riescono a guadagnare sul totale della loro offerta solo a condizione di essere presenti con una quota elevata sul lungo raggio”. Osservazioni evidentemente ignorate dai capitani coraggiosi di Alitalia, la cui lungimiranza strategica e industriale è quantomeno da mettere in dubbio. Portando un esempio, spesso si parla delle potenzialità turistiche del nostro Paese: è possibile che con una domanda turistica cinese in crescita e sempre più affamata di Italia, la sedicente compagnia di bandiera non sia in grado di offrire un collegamento diretto Roma-Pechino, almeno bisettimanale?

La vicenda di Alitalia non è altro che l’ennesimo esempio di come l’ingerenza dello Stato e del Governo di turno sia alla radice di decisioni e strategie fallimentari e con ricadute negative sulle spalle di lavoratori e cittadini, utilizzando come paravento una sterile battaglia a difesa di un’italianità ormai senza capitali, destinata a scaricare ulteriori costi sui contribuenti, magari con vantaggi per i soliti (e pochi) noti. 

Ma le lezioni del passato evidentemente non servono mai a nulla: lo Stato non riesce proprio a restarne fuori e tenta di rimetterci lo zampino, orchestrando e dirigendo dal palazzo la partecipazione di Poste Italiane a quest’ultimo goffo tentativo di una respirazione bocca a bocca per rianimare Alitalia. Ben sapendo che ormai il destino è segnato e ci si avvia ora a “regalarla” ad Air France-Klm, che nel frattempo ha sviluppato altri progetti e che su Alitalia ora è dichiaratamente intenzionata a servirsene unicamente come strumento per incrementare il traffico di persone dall’Italia verso i suoi hub principali di Parigi e Amsterdam.

Per contrasto con la vicenda di Royal Mail, questo è il risultato di un passo avanti dello Stato, dopo la dovuta presa di coscienza. Continuando con passi avanti di questo tipo, verso direzioni che non hanno portato e non portano a nulla, speriamo di non arrivare sull’orlo del precipizio. In quel caso, anche un solo passo avanti potrebbe essere fatale.