Chi dice che lo spread non conta, mente sapendo di mentire: lo spread conta eccome, non fosse altro perché determina l’ammontare degli interessi che un Paese emittente deve pagare sul proprio debito per finanziarlo. Diverso invece è dire che lo spread non conta nulla come indicatore macro-economico e sistemico, in questo caso sono d’accordo. E vi faccio un esempio chiaro: guardate il grafico a fondo pagina. Mette in relazione le sofferenze bancarie spagnole allo spread tra Bonos iberici e Bund tedeschi: visto così, preso per buono, verrebbe da pensare che più il sistema bancario di un Paese è intasato da crediti a rischio e incagli, più il mercato ne premia l’affidabilità, comprimendo lo spread e quindi il tasso a cui finanziare il debito emesso e da emettere. Sappiamo tutti che non è così, però. Le banche sono il motore del sistema economico e produttivo di un Paese, quindi se viaggiano con percentuali di bad loans a doppia cifra solo un pazzo scommette sull’affidabilità loro e della nazione che rappresentano: nessuna economia sana può crescere in un ambiente di erogazione e trasmissione del credito simile, tanto più quella di un Paese a forte vocazione di piccola e media industria. Che sta succedendo, quindi?



In Spagna, le banche hanno raggiunto la cifra record di 247 miliardi di dollari di sofferenze alla fine dello scorso agosto, il 12,12% di tutti i prestiti concessi e un valore del 30% superiore a qualsiasi precedente crisi vissuta in Spagna. In compenso, la creazione del credito continua a implodere, registrando un tonfo del 12,3% di prestiti totali concessi. Insomma, una situazione da mani dei capelli, ma lo spread Bonos-Bund sembra dirci altro, così come i recenti rally dell’indice Ibex a Madrid. Il perché è presto detto: viviamo in un ambiente di mercato drogato. La Spagna, ma anche noi, Italia, nonostante il governo Letta sbandieri lo spread ai minimi da due anni come qualcosa frutto dell’opera dell’esecutivo. Balle. Il nostro spread e quello spagnolo sono bassi perché le banche dei due paesi continuano a comprare debito, sempre di più, sempre più abbondantemente, trasformando i loro bilanci in potenziali bombe a orologeria in caso di attacco speculativo. Non a caso, il Tesoro ha deciso di aumentare le emissioni da qui a fine anno: tanto, il compratore di ultima istanza è garantito, le banche.



Capite da soli che questa è una logica malata, statalista, quando non filo-sovietica: io ti metto un paio di norme a tuo favore nella legge di stabilità per ringraziarti dello shopping sovrano fatto finora, ma tu fai il favore di continuare a comprare. Tanto ci pensa la Bce a finanziare quegli acquisti: le banche al massimo emettono più obbligazioni, lo Stato le garantisce (facendo aumentare il debito pubblico, come puntualmente successo negli ultimi due anni di governi tecnici o simil-tecnici di lacrime e sangue), finiscono come collaterale a Francoforte e il gioco è fatto. Peccato che questa logica perversa potrebbe conoscere in fretta la fine e qualcuno potrebbe farsi davvero del male, cercando di prendere al volo il coltello caduto dal tavolo. Anche perché i crediti non performanti hanno superato in Italia la soglia dei 140 miliardi di euro (+22,3% su base annua), con un tasso annuo di crescita del 31% dal 2008, stando a uno studio di PWC pubblicato ieri e a detta del quale la maggior parte è detenuta dalle prime tre banche italiane (Intesa, Unicredit e Mps).



A luglio di quest’anno, il rapporto delle sofferenze lorde sul totale crediti è salito al 7,2% dal 5,7% nel luglio 2012: ripartito per segmento di clientela, ha raggiunto il 12,9% per le Pmi, l’11,3% per le grandi imprese e il 6% per la clientela retail. Però, nelle prime 20 banche italiane il rapporto di copertura delle sofferenze si discosta significativamente da banca a banca, ovvero dal 38% al 64%, così come l’incidenza delle sofferenze nette sui crediti rispetto alla clientela, dallo 0,7% al 9,6%. I risultati del primo semestre 2013 hanno invece mostrato un aumento del rapporto sofferenze nette da una media del 3,3% nel 2012 a una del 3,6% per tutte le banche, con l’eccezione di Bnl, per la quale i valori sono diminuiti a seguito di una transazione infragruppo.

A seguito dell’aumento dei crediti deteriorati, le banche italiane, in leggero ritardo stando a PWC, hanno iniziato a migliorare i loro livelli di copertura delle sofferenze di oltre il 10%, pur rimanendo al di sotto dei livelli pre-crisi. Per l’anno prossimo, PWC si attende che Bankitalia e la Banca centrale europea spingano le banche italiane ad aumentare il proprio grado di copertura e che i bilanci del prossimo anno saranno interessati da consistenti svalutazioni sui crediti, con un miglioramento nel rapporto di copertura delle sofferenze. E guarda caso, un incentivo importante alla svalutazione e alla ripresa del mercato delle transazioni sui crediti non performanti sarebbe senz’altro rappresentato proprio dall’approvazione delle modifiche sulla deducibilità delle svalutazioni e perdite su crediti ai fini Ires contenute nel disegno di legge di stabilità 2014. Lo stesso che ieri è passato al vaglio della Commissione europea, chiamata a dare il via libera o proporre le proprie modifiche entro il 15 novembre prossimo: se casserà quei due punti di vitale importanza per il nostro sistema bancario, cosa succederà sui mercati? Reggerà ancora lo spread così basso e tranquillizzante, a fronte di numeri come quelli che vi ho appena enunciato? E la Borsa, continuerà a vedere il Ftse Mib sopra quota 19.000 e i titoli bancari beneficiare proprio del differenziale ai minimi tra Btp e Bund?

A lanciare un ammonimento in tal senso, soprattutto alla luce degli stress test della prossima primavera, i cui criteri verranno resi noti domani dalla Bce, è stato James Howat, economista per l’area euro alla Capital Economics: «Se i test evidenzieranno grossi buchi nei bilanci delle banche, non si intravede un chiaro meccanismo per poterli colmare. Potrebbe essere necessaria la fornitura di nuovo capitale da parte della Bce o dell’Europa, ma non certo nei volumi e nelle cifre viste nei precedenti bailout». Ovvero, quanto speso per le banche irlandesi, greche, portoghesi e spagnole, non potrà essere versato una seconda volta. A ritenere invece salutare sul lungo termine uno shock simile sono, guarda un po’ le combinazioni, invece gli analisti di Deutsche Bank, a detta dei quali «forzare le banche a riconoscere l’estensione reale delle loro sofferenze e quindi ricapitalizzare di conseguenza è cruciale per evitare la cosiddetta “zombificazione” del sistema».

Questo processo, durante il quale le aziende continuano a ripagare gli interessi su propri prestiti ma non il capitale e non fanno crescere il loro business investendo, porta con facilità alla morte per asfissia di un sistema economico e del suo tessuto d’impresa. E quale sarebbe la ricetta di Deutsche Bank per evitare questo, nei paesi come il nostro con forti percentuali di sofferenze bancarie? Semplice, le banche devono richiamare più prestiti possibili, ovvero obbligarne il rientro, in modo da aiutare i loro bilanci e liberare più fondi per investire. Bontà loro, gli analisti teutonici ammettono che esiste il rischio di una piccola controindicazione in questa ricetta: questo potrebbe comportare il fallimento di altre aziende. Ma vah? Aspettavamo i geni di Deutsche Bank per capire che una sorta di “margin call” in grande stile sui prestiti erogati e oggi in sofferenza devasterebbe un sistema industriale già in ginocchio come il nostro e basato al 90% su Pmi.

Il problema è che non sta certamente a noi decidere cosa fare, noi dipendiamo dall’Europa, persino la legge finanziaria dei prossimi tre anni la vaglia e la approva (o boccia) l’Europa: non contiamo più nulla. E se Draghi alla Bce è – almeno formalmente – garanzia che non si arriverà a un epilogo tale, ovvero la chiusura per bancarotta dell’Italia, l’Eba e gli stress test della prossima primavera potrebbero forzare una soluzione simile, con la Bundesbank ben felice di vedere la nostra economia morire sotto i colpi di migliaia e migliaia di fallimenti di imprese. A quel punto, lo shopping estero sarebbe davvero a prezzi di saldo. E noi ridotti a una colonia.

Quando, come ha fatto ieri, una banca d’affari come JP Morgan sentenzia che il rally di Italia e Spagna proseguirà e invita a puntare sui titoli bancari di quei Paesi, non è perché le cose stanno davvero così, è soltanto perché è strapiena di quella carta e vuole venderla ai gonzi di turno ora che è ai massimi, prima di doverne scontare le perdite, essendo esposta “overweight” sulle equities europee. Che dire poi del nostro ministro delle Finanze, Fabrizio Saccomanni, che o mente sapendo di mentire e sfruttando l’ignoranza della gente o se pensa davvero quello che ha detto è un incompetente da mandare via immediatamente. «Tutti odiano questa legge di stabilità, ma il mercato azionario è in rialzo e lo spread è basso», ha avuto il coraggio di dire, omettendo che con un combinato di 160 miliardi di dollari mensili di nuovo denaro messi in circolo da Fed e Bank of Japan, il mercato è stato in rialzo anche con lo shutdown e il rischio default degli Usa e nonostante il Giappone abbia conosciuto il quindicesimo mese di deficit commerciale in rialzo, altro miracolo dell’Abenomics.

Il mercato cresce drogato dai quei soldi, non ha più bisogno di inviare segnali ai politici e ai governi rispetto alle loro scelte sbagliate o giuste, semplicemente sale e porta i prezzi a rompere un record dopo l’altro: quando la stamperia chiuderà o rallenterà, semplicemente verrà giù tutto. Senza avvisare prima il buon Saccomanni. Attenzione, quindi, a non farvi abbindolare dalle sorti magnifiche e progressive propagandate da Letta e dai suoi scudieri, dallo spread basso e dal Ftse Mib con open interest a 61.000, l’assalto potrebbe essere dietro l’angolo. Lento e silenzioso, come le grandi trappole sono sempre. Le banche sono l’anello debole da colpire. E tra poco diverranno le protagoniste assolute della politica europea, l’argomento principe su cui discutere e agire: un timing perfetto. La Germania ha scelto il campo di battaglia, forse ci verrà concessa la scelta dell’arma. Con cui ci faranno fuori, in ogni caso, se non reagiamo subito.