Il Governo pare fare sul serio: il piano di privatizzazioni vedrà presto la luce e a finire sul mercato non saranno solo immobili, ma anche rami di aziende possedute o le partecipazioni detenute in società quotate. Lo ha confermato il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, che ha fatto anche il nome della Rai. Ma ci sono anche quelli di Eni, Terna, Snam, Enel e Finmeccanica che sono aziende di cosiddetto interesse strategico per il Paese. L’iniziativa garantirebbe circa 20 miliardi di euro in tre anni da usare per abbattere il debito. Che, attualmente, è di 2.075 miliardi di euro. Abbiamo chiesto un commento ad Antonio Maria Rinaldi, professore di Finanza aziendale all’Università Gabriele D’Annunzio di Pescara.
Cosa ne pensa dell’ipotesi del governo?
L’operazione è del tutto illegittima. Anzitutto perché, a differenza delle prime privatizzazioni (quando lo Stato ancora possedeva il 100% delle imprese che avrebbe, in parte, venduto), l’Italia si accinge a perdere completamente e definitivamente la maggioranza relativa. Inoltre, non sarà più in grado, in futuro, di recuperarla, dato che la golden rule, in questi casi, è proibita dalla normativa comunitaria. Infine, è evidente che alcune di queste aziende sono strategiche per l’interesse nazionale.
Chi è su posizioni liberiste-oltranziste sostiene che non vi è ragione per credere che un investitore straniero non farà comunque l’interesse economico del nostro Paese.
Tanto per cominciare, stiamo parlando di alcune tra le poche aziende che ancora producono grandi profitti che, se restano in Italia, vengono reinvestiti in Italia; se finiscono all’estero, evidentemente saranno reinvestiti all’estero. Come se non bastasse, il rendimento delle partecipazioni in mano allo Stato è, generalmente, superiore al costo medio del debito pubblico; quest’ultimo, quindi, tramite il piano del governo, sarebbe abbattuto in misura decisamente inferiore rispetto alla redditività di tali aziende. In sostanza, una volta erosi pochissimi miliardi di debito, questo continuerebbe subito dopo ad aumentare, neutralizzando immediatamente l’operazione. Non vi è ragione, quindi, per cui lo Stato dovrebbe privarsene. Alle considerazioni strettamente economiche, si aggiungono quelle legate alla sicurezza nazionale.
Ci spieghi meglio.
L’Italia ha una fortissima dipendenza dall’estero per l’approvvigionamento energetico. Il solo sospetto che in futuro le aziende del settore possano diventare proprietà di chi ha interessi nazionali diversi, se non addirittura in conflitto con i nostri, non è evidentemente accettabile. Non dimentichiamo che il valore dell’Eni, in particolare, eccede di gran lunga la sua dimensione economica: da sempre, infatti, svolge una funzione diplomatica di primaria importanza in tutte le aree in cui opera (molte delle quali sono zone di conflitto), non di rado suppletiva e ben più capillare di quella svolta dal ministero degli Esteri, accreditando l’Italia a livello internazionale e potenziando la capacità del nostro Paese di intessere rapporti politici e commerciali.
Come si comportano, in questi casi, gli altri paesi?
Nessuno al mondo si sognerebbe di disfarsi di un gioiello come, per esempio, Finmeccanica. Di sicuro non i francesi, i tedeschi o gli americani, decisamente attivi in questo settore, nonché, attualmente, nostri competitor; tutti costoro, peraltro, si guarderebbero bene dal svendere le proprie partecipazioni a privati che, spesso, privati non sono, bensì soggetti riconducibili a fondi sovrani stranieri. Non si capisce, francamente, questa spinta a privatizzare in maniera indiscriminata. Tanto più che molti paesi europei continuano ad avere partecipazioni in molte aziende, mentre i tedeschi, per intenderci, in deroga alle norme europee, hanno nazionalizzato più di 90 istituti di credito e società finanziarie. Noi non abbiamo più una sola banca nazionale. Va detto, infine, che tutte le privatizzazioni sin qui effettuate sono state un fallimento.
Quali, per esempio?
Basti ricordare Alitalia, dove è entrato un azionariato che non ha mai saputo dare garanzia di stabilità al punto da rendere necessario, nelle fasi successive alla privatizzazione, l’intervento dello Stato. Tanto valeva, ovviamente, che si tenesse direttamente in mano l’azienda.
Comunque sia, resta il problema di abbattere il debito.
Vede, il problema è che la Germania è riuscita a imporre, in Europa, un modello economico secondo cui il presupposto della crescita è la riduzione del deficit. Un modello che, altrove, non esiste (Usa, Giappone, e Londra hanno migliorato la propria economia attraverso la svalutazione competitiva) e che, in Italia si è praticato esclusivamente attraverso l’aggravio della fiscalità e il taglio della spesa (senza mai essere riusciti a razionalizzarla); il che, non ha fatto altro che ridurre le basi imponibili, acuendo la spirale recessiva.
Possibile che Letta, queste cose, non le sappia?
Temo che qualcuno gli abbia suggerito che, così facendo, godrà di maggior consenso internazionale.