Adesso Enrico Letta non ha più alibi, deve rimboccarsi le maniche, lui e i suoi ministri, e fare quello che ha promesso davanti al Parlamento: ridurre le spese e le imposte, mantenere sotto controllo i conti pubblici, cambiare la legge elettorale e (tema che resta sullo sfondo, ma diventa in realtà prioritario) riformare il mercato del lavoro. Compito arduo, perché i nodi da sciogliere sono molto ingarbugliati e perché la maggioranza a disposizione è ampia solo sulla carta.



Letta esce vincitore dallo psicodramma politico. Ci saranno tuttavia altri sussulti, far passare indenne una legge di bilancio decentemente riformatrice sarà durissimo, le tensioni istituzionali restano così come le ferite provocate dalle baruffe nei confronti del Presidente della Repubblica. Il Pd ha perso la speranza di liberarsi di Silvio Berlusconi il quale, alla fine, ha seguito il suo istinto, scegliendo di non farsi tagliare fuori. Detto questo, il governo può avere di fronte oltre un anno di tempo, fino alla conclusione della presidenza italiana dell’Unione europea. Non molto, però basta per segnare quella svolta che finora non c’è stata. Lo ha ammesso lo stesso Letta nel discorso alla Camera, parlando di “una spinta in più”. “Ci attendiamo dall’Italia stabilità e riforme”, ha sottolineato ieri Mario Draghi. La stabilità per ora c’è, tocca alle riforme.



Il presidente del Consiglio ha promesso la crescita: un punto di Pil nel 2014, ha detto. Vasto programma e non è certo sufficiente a ridurre la disoccupazione salita a livelli record. Recuperare il terreno perduto sarà davvero difficile. Nel suo ultimo rapporto il Cer (Centro Europa ricerche) mette a confronto la produzione industriale nelle tre peggiori crisi italiane del dopoguerra: quella del 1975, quella del 1993 e quella attuale. Nel primo caso, l’indice ha impiegato meno di due anni per tornare sopra il livello iniziale; nel secondo ce ne sono voluti quattro; ora sono passati sei anni e l’indice è del 23% inferiore al 2007. Allungando la prospettiva storica, secondo il Cer bisogna tornare alla depressione del 1929-1935 e alla crisi del 1866-1871 per trovare qualcosa di equivalente.



Se è così, l’euro è in parte assolto dai suoi peccati. È vero che negli anni ‘70 e negli anni ‘90 la svalutazione della lira ha aiutato la ripresa, ma precedentemente abbiamo avuto il cambio forzoso come conseguenza del crac post-unitario e una lira sopravalutata dopo quota 90 negli anni ‘30. Dunque, manovrare la moneta resta uno strumento importante che oggi l’Italia non ha (tutt’al più può contribuire a svalutare l’euro), ma non è a senso unico e non è sufficiente. La variabile fondamentale per un Paese aperto e dipendente dal commercio mondiale come siamo sempre stati è la competitività che dipende dal fattore lavoro prima che dal cambio, e lo dimostrano tutti gli storici dell’economia delle scuole più diverse.

Letta si è impegnato a mantenere il deficit pubblico sotto il 3% e a ridurre le imposte sul lavoro (il famoso cuneo fiscale). Come? Aspettiamo che Fabrizio Saccomanni dia i nuovi numeri. Quelli resi noti l’altro ieri mostrano un fabbisogno del settore statale aumentato a 75 miliardi da gennaio a settembre, con una dinamica peggiore rispetto al 2012, conseguenza dei pagamenti dei debiti della Pubblica amministrazione, più l’accelerazione dei rimborsi fiscali e gli interessi sui titoli del debito pubblico. Si spera che le entrate vadano meglio nei prossimi mesi, ma per non sforare occorre un’impennata oggi del tutto irrealistica. Dunque, le risorse non ci sono.

Il presidente del Consiglio ha detto che le troverà tagliando le uscite. Non ha specificato quali. Ogni volta che la litania sulla riduzione della spesa pubblica deve diventare proposta concreta si finisce per balbettare. L’amara verità è che le spese in rapporto al Pil si sono ridotte, anche se non di molto, solo nei due anni in cui sono scattati i tagli lineari decisi da Giulio Tremonti. Una scure dolorosa, talvolta iniqua, ma efficace. La spending review rispolverata dal governo Monti non ha dato i frutti sperati. Non parliamo poi di mettere mano alla spesa decentrata, fonte non solo di perdite, ma di andamenti per lo più fuori controllo. Vedremo cosa verrà fuori dalla legge di stabilità. Quanto all’altra formula magica, la lotta all’evasione fiscale, chi ha i capelli bianchi ne sente parlare da quando aveva i calzoni corti.

Ma c’è una questione che resta appesa come la spada di Damocle sulla testa di ogni governo: la riforma del mercato del lavoro. Chi legge i documenti, le lettere, le ramanzine, le reprimende dell’Ue, della Bce, del Fmi, delle agenzie di rating, non può non notare che è una costante. Non l’ha fatta il governo Berlusconi prima della crisi, non l’ha fatta Prodi ostaggio, poi sacrificato, della sinistra radicale. Non vi ha messo mano il nuovo Berlusconi perché nel frattempo è scoppiata la crisi e ha giudicato che la priorità era concedere la cassa integrazione. Ci ha riprovato in parte Monti, ma è rimasto anche lui intrappolato dai veti dei sindacati e dall’ostilità confindustriale mascherata da prudenza. Eppure, proprio questa è la chiave di volta per recuperare la fiducia dei mercati e ridare slancio all’economia.

Negli anni scorsi un’obiezione, fondata, veniva soprattutto dal mondo sindacale: aumentare la mobilità in uscita e la flessibilità dei salari in piena recessione significa moltiplicare i disoccupati e ridurre le buste paga senza ottenere nulla in cambio. Adesso che si registra un nuovo clima di fiducia nelle imprese, ora che le esportazioni tornano a tirare e s’affaccia un barlume di ripresa, ebbene è il momento giusto per mettere mano alla riforma. Facciamo una commissione Hartz (magari affidandola all’equivalente italiano di Peter Hartz, già capo della Volkswagen, che sarebbe Sergio Marchionne?) o riprendiamo le fila delle molte proposte che giacciono in Parlamento. Del resto, la tanto esaltata riforma tedesca del 2003 segue le linee tracciate in Italia da Marco Biagi. Con in più la disponibilità dei sindacati non solo a legare i salari alla produttività, ma a ridurli per salvare, in cambio, i posti di lavoro, com’è emerso dagli accordi nei grandi gruppi a cominciare da quello Volkswagen.

Quanto ai giovani, servirà molto più che incentivi fiscali per assunzioni a tempo indeterminato. Il dibattito è aperto ovunque. Uno studio della Georgetown University, ad esempio, suggerisce di favorire l’intreccio scuola-lavoro, sostenere la flessibilità e consentire agli individui di guadagnare mentre si studia. Insomma, occorre una strategia di ampia portata collegata alla riforma degli ammortizzatori sociali e del welfare.

Sulla legge elettorale, rimasta finora lettera morta, si può aprire qualche spiraglio. L’improvvisa virata di Berlusconi allunga i tempi e fa capire che nemmeno lui, ormai, pensa si possa andare al voto con il Porcellum. Giorgio Napolitano su questo è stato chiaro. E lo dicono i sondaggi che sembra abbiano avuto un ruolo importante nella svolta berlusconiana, altrettanto importante nella minacciata scissione (senza sottovalutare la mossa della pattuglia di dissidenti). Tutti i guru dell’opinione pubblica mostrano che in questo momento, con questo sistema elettorale, il Pd è in testa, ma non di molto, il Pdl è secondo ma non lontano, a ridosso c’è il M5S e via via gli altri. Insomma, non cambia nulla di fondamentale. Il prossimo parlamento sarebbe lo specchio di quello attuale. Che senso ha votare? È probabile, dunque, che i due maggiori partiti, più Scelta civica, possano trovare un accordo. Resterebbero fuori i grillini e l’estrema sinistra. Motivo in più per accelerare il chiarimento. Un ulteriore impegno riguarda la giustizia e qui Letta si è tenuto al comune denominatore: il documento dei saggi nominati da Napolitano.

Sul piano schiettamente politico, dunque, il governo può avere più margini che su quello economico. Ma è soprattutto in economia che verranno giudicate dagli elettori le forze politiche che lo sostengono. E qui occorre tenuta, abilità, e in primo luogo coraggio.