Tutto come previsto: i tassi di interesse nell’eurozona resteranno ai livelli attuali, se non a livelli più bassi, per un periodo di tempo esteso. Lo ha ribadito ieri il presidente della Bce, Mario Draghi, durate la conferenza stampa a seguito del Consiglio direttivo in cui è stato confermato per il quinto mese consecutivo il principale tasso di interesse dell’area euro al minimo storico dello 0,50%. «La politica monetaria resterà accomodante per tutto il tempo che sarà necessario», ha sentenziato Draghi. A detta del quale, nel secondo trimestre l’eurozona ha registrato una crescita del Pil dopo sei trimestri consecutivi di recessione e gli indicatori sulla fiducia confermano un graduale miglioramento. Su questa base, il graduale rafforzamento dei mercati finanziari sta iniziando a trasmettere i suoi effetti all’economia reale e i redditi privati stanno traendo benefici dalla bassa inflazione. Non so dove abbia tratto queste conclusioni, da quali indicatori, ma tant’è.



Per Draghi, poi, l’inflazione rimane sotto controllo nel medio termine, mentre i rischi per l’economia dell’eurozona restano elevati a causa di «nuove tensioni geopolitiche, una domanda globale più debole del previsto e un’applicazione insufficiente o lenta delle riforme strutturali nei Paesi dell’area». La disoccupazione, inoltre, rimane elevata nell’area e i necessari aggiustamenti di bilancio nei settori pubblico e privato continuano a pesare sull’attività economica.



Il numero uno dell’Eurotower si aspetta quindi che «la ripresa dell’economia dell’Eurozona proceda con un passo lento» e per la corretta trasmissione della politica monetaria «occorre che la frammentazione del mercato del credito europeo continui a calare e che la resistenza della banche sia migliorata. Ma per ora i prestiti al settore privato restano deboli». Ed ecco il punto nodale: «Riguardo alla situazione sui mercati monetari staremo molto attenti agli sviluppi che potrebbero avere implicazioni sulle posizioni di politica monetaria e siamo pronti a prendere in considerazione tutti gli strumenti disponibili». Insomma, ancora una volta Draghi vende ai mercati l’ipotesi entro fine anno di un’altra asta di rifinanziamento Ltro per le banche europee, ma non si permette di citarla direttamente. Impasse. Ancora. Ma questo non ci deve stupire, perché il Consiglio direttivo di ieri non è stato l’ennesimo appuntamento rituale della Banca centrale. Per più di un motivo.



Cominciamo dal primo, ovvero dal fatto che martedì sul mercato secondario si è comprato debito pubblico spagnolo con il badile, quasi gli operatori fossero stati folgorato sulla via di Madrid. Niente di tutto questo, Madrid è conciata male esattamente come era la scorsa settimana. Come lo era lunedì. Il problema è che Draghi sa come stanno le cose, sa che dovrà inventarsi qualcosa per sostenere i debiti dei periferici, non essendo il programma Omt operativo (e a rischio di essere schiantato dalla Corte costituzionale tedesca entro fine anno) e non essendo le condizioni macro di quei paesi in grado di reggere eventuali nuove turbolenze, politiche o finanziarie che siano. E quindi martedì Draghi ha fatto ciò che doveva, anche per mandare un segnale chiaro all’Italia e alla sua tentazione di far cadere il governo: ha dato vita all’ennesimo back-door funding, ovvero ha ampliato all’infinito la platea del collaterale eligibile per il finanziamento delle banche spagnole, accettando anche la carta del Mars o le figurine dei Pokemon. E gli istituti iberici, con i soldi facili dell’Eurotower, hanno comprato debito sovrano del loro Paese come se non ci fosse un domani, facendo scendere lo spread verso il Bund di quasi 20 punti rispetto al livello di apertura delle contrattazioni e piazzando un spread Btp-Bonos di ben 32 punti base nel picco massimo.

Ovvero, ancora una volta il debito italiano doveva pagare un premio di rischio sui mercati rispetto a quello iberico: segnale chiaro anche ai litiganti romani, oltre che ennesima sfida di Mario Draghi verso il rigorismo tedesco. Ieri, all’ora di pranzo, scontavamo 15 punti di spread, la metà di quella del giorno precedente: sintomo chiaro che la crisi politica pesava, ma anche che il giorno prima qualcuno aveva goduto di un “aiutino”. E non era stato un caso. Proprio martedì mattina, il capo della Bundesbank, Jens Weidmann, aveva inviato un siluro verso il governatore della Bce, ovviamente a mezzo stampa, ovviamente a mezzo Financial Times, ovviamente il giorno prima del Consiglio direttivo. Netta l’accusa: il livello di debito governativo presente nei bilanci delle banche sta salendo troppo, occorre una nuova regolamentazione. Weidmann non ha usato mezze misure, né parole misurate: ha parlato di «abbraccio mortale» tra istituti di credito e detenzioni di debito sovrano di paesi che hanno bisogno di essere salvati che «deve essere rotto». Per Weidmann, infatti, «invece di tagliare le loro detenzioni obbligazionarie sovrane, le banche dell’eurozona le hanno aumentate dall’inizio della crisi».

L’attuale regolamentazione, per Weidmann, rende «molto attraente» per le banche l’investimento in bond governativi, soprattutto quelli delle loro nazioni di provenienza: per questo, ricorda il numero uno della Buba, «il debito sovrano ormai pesa per il 5,3% degli assets bancari totali dell’eurozona, un aumento di un terzo rispetto al livello di cinque anni fa. È giunto il tempo di dare una risposta regolatoria al trattamento delle esposizioni sovrane. Senza questa, non vedo una via possibile per rompere il nesso tra banche e obbligazioni governative». Insomma, un siluro chiaro contro l’ipotesi di una nuova asta di rifinanziamento Ltro entro la fine dell’anno che molti analisti vedevano ormai come un qualcosa di inderogabile per riuscire a comprimere ancora un po’ gli spread e, soprattutto, cercare di riattivare il meccanismo di trasmissione del credito nell’eurozona, esattamente il messaggio mandato ieri da Draghi in conferenza stampa.

A oggi, sinceramente, occorre ammettere che le due precedenti aste – per un controvalore di circa 1 triliardo di euro – sono servite unicamente per il sostegno dei debiti dei paesi periferici e la Bundesbank si fa forte di questa anomalia, ricordando a ogni piè sospinto che non è nel mandato della Bce acquistare debito direttamente. Inoltre, per Weidmann l’attrattività del carry-trade garantito dai soldi a basso costo della Bce tende a vedere le banche più vulnerabili divenire le più esposte al debito sovrano, perché attratte dal funding potenzialmente risk-free e molto remunerativo del trading su obbligazioni governative. Non solo, per Weidmann ampie detenzioni di debito portano con sé una propensione alla riduzione del rischio da parte delle banche, ovvero una minor inclinazione al credito, quasi la detenzione a riserva divenga una strategia di hedging e il carry-trade una sorta di palliativo per evitare aumenti di capitale o deleverage. Per Weidmann, in gioco ci sono «il principio di responsabilità individuale degli istituti di credito, anche perché i tassi di interessi attuali non riflettono più la rischiosità di questo tipo di investimenti». Per il capo della Buba, la risposta è sempre la stessa: «Intervenire sulle liabilities contingenti dei governi abbasserà il rischio di investimento nei debiti sovrani e anche gli spread di questi ultimi».

Insomma, Draghi è sulla Luna e Weidmann su Marte, due linguaggi diametralmente opposti e due persone che non fanno nulla per venirsi incontro e trovare un punto di mediazione. In gioco però non c’è soltanto la diatriba tra due scuole di pensiero, ma il futuro stesso della Bce e quindi dell’eurozona. Una cosa è certa e senza possibilità di interpretazioni: i tassi a cui le piccole e medie aziende dei paesi periferici riescono a finanziarsi è in termini reali di circa il 4,5-5%, quindi quasi 250 punti base in più rispetto agli omologhi dell’area Nord dell’eurozona. Così dalla recessione non si esce, così la cosiddetta ripresa – ammesso che esista – non la si aggancia di certo. Ma questo non sembra interessare molto né alla Bundesbank, né al suo braccio commerciale, quella Deutsche Bank che attraverso un report ha reso noto che «la barra tra proclami verbali e decisioni reali per il Consiglio della Bce è molto alta».

Non la pensa così Frank Oland Hansen, capo analista di Danske Bank, a detta del quale «qualsiasi mossa politica della Bce sarebbe una sorpresa e potrebbe attivare una netta reazione dei mercati. C’è però il rischio che gli investitori si stanchino delle continue dichiarazioni di Draghi e vogliano i fatti, ipotesi che potrebbe portare con sé tassi più alti, curve dei rendimenti che si appiattirebbero e un netto rafforzamento dell’euro/dollaro». Qualcosa, a mio avviso, accadrà. Temo che Draghi sarà costretto a sfidare apertamente la Bundesbank e a dar vita a un’asta Ltro entro la fine dell’anno, forse a novembre.

Questo anche perché il dato emerso ieri dagli Usa, in base al quale si sarebbero creati 166mila posti di lavoro in più, fa capire che nonostante il proclama i metà settembre, la Fed a ottobre darà vita a un primo “taper”, quindi meno soldi e meno acquisti di titoli. Un’ondata globale che potrebbe mandare shock poco gestibili sugli spread e quindi costringere Draghi ad agire, in maniera non convenzionale, per evitare rischi simili a quelli del 2011. A quel punto la Bundesbank dichiarerà guerra, forte anche della Corte costituzionale di Karlsruhe che potrebbe – con timing perfetto – uccidere il bluff del meccanismo Omt e dare la stura alla speculazione globale. Draghi potrebbe non reggere l’impatto politico e abbandonare l’Eurotower su pressioni tedesche. Ma per lui sarà pronta la poltrona del Quirinale, con dimissioni anticipate di Giorgio Napolitano. Nulla di quanto accaduto in questi giorni, sappiatelo, è stato lasciato al caso.

 

P.S.: Se così non fosse, perché mentre Mario Draghi parlava di «ripresa debole», l’euro andava alle stelle? Chi deve sapere, sa.