L’Italia è più povera, e pare destinata a esserlo ancora di più. Il calo del Pil nel 2013, rileva l’Istat, è pari all’1,8%. Una dinamica peggiore rispetto alle aspettative del governo, che si attendeva un calo dell’1,7%. La ripresa, poi, è prevista per il 2014, ma sarà talmente lieve da essere impercettibile. Nel frattempo, il numero di persone che versano in condizioni di povertà assoluta è raddoppiato, passando da 2,4 a 4,8 milioni, mentre una famiglia su 3 è stata colpita direttamente dalla crisi. Per una su 4, infine, come specifica un’indagine Acri-Ipsos, il tenore di vita è seriamente peggiorato. Cosa ne sarà del nostro Paese? Lo abbiamo chiesto a Luigino Bruni, docente di Economia Politica presso l’Università Milano-Bicocca.



Siamo realmente più poveri?

Direi di sì. Tuttavia, la povertà non è un problema di flussi o di reddito, ma di capitali: sociali, culturali, educativi, umani. E anche monetari, ovviamente. In tal senso, l’Italia si sta effettivamente impoverendo. La gente ha meno istruzione, non trova lavoro, non lo trova adeguato alle proprie competenze, e il welfare è sempre più ridotto. Il fatto è che la crisi si è innervata su una situazione preesistente, determinando uno choc esogeno che ha rivelato quanto la nostra l’Italia, negli ultimi 20 anni, si sia impoverita sotto tutti questi profili.



Perché siamo arrivati a questo punto?

Perché sono finite le ideologie e le narrative del ‘900. Abbiamo formato la gente per almeno 150 anni convincendola che esistevano ideali più grandi per cui spendere la vita e, in base a tale etica, abbiamo immaginato valori e virtù per costruire un mondo. Questo mondo è finito e, all’orizzonte, non se ne vedono altri. La gente, quindi, fatica ad alzarsi al mattino, non avendo altra prospettiva che non sia quella dei consumi.

Siamo destinati al declino?

Non è detto. L’importante è riuscire e promuovere un’Italia che riesca a raccontare storie più profonde del mito del consumo e delle merci.



Non crede che la ripresa potrebbe esserci comunque, a patto di agganciare quella dei paesi in cui il Pil ha ripreso a crescere?

Mettiamo anche che il Pil riprenda a crescere dello 0,1%; se il gioco d’azzardo continuerà a proliferare, se le imprese che producono alta tecnologia continueranno a delocalizzare, o se le poche rimaste non saranno in grado di dare lavoro, non sarà cambiato nulla. Il problema, a dire il vero, è che non possiamo continuare a ritenere il Pil uno strumento decisivo per definire lo stato di salute di un sistema economico-sociale.

 

Lei che indicatori suggerisce?

L’occupazione, la povertà delle famiglie, la distribuzione del reddito o il livello di educazione.

 

Cosa dovrebbe fare la politica?

Dare, anzitutto, segnali di maggiore concordia. La competizione politica ha senso se si parte da una base di valori condivisi orientati al bene comune. Le poche risorse a disposizione, inoltre andrebbero destinate alle imprese e allo sblocco del credito da parte delle banche. In questa fase, inoltre, dovrebbe chiedere all’Europa tre o quattro anni di sospensione dell’austerità, per poter compiere investimenti massicci nel campo della scuola, delle infrastrutture e dei servizi all’impresa.

 

Torneremo mai ai livelli di benessere precedente alla crisi?

A livello di consumi, direi di no. Il benessere complessivo, invece, potrebbe aumentare se torneremo a quelle dimensioni che prescindono dal mercato, come i territori, le comunità o l’impegno civile. 

 

(Paolo Nessi)