«L’euro troppo forte rispetto alla rupia indiana, al rublo e al real brasiliano è una minaccia per la nostra economia. La politica economica europea deve trovare la strada che non sia preda delle fobie inflazionistiche della Germania». Lo afferma Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison. Secondo una ricerca commissionata da Il Sole 24 Ore all’ufficio studi di Intesa Sanpaolo, il rincaro dell’euro negli ultimi dodici mesi ha fatto perdere lo 0,4% al Pil del nostro Paese, contro soltanto lo 0,1% guadagnato per il calo dello spread.



Professor Fortis, davvero l’euro forte provoca effetti così negativi sulla nostra economia?

Non meraviglia che il rafforzamento dell’euro abbia un impatto significativo sul Pil, attraverso un freno alle esportazioni. Effettivamente nell’ultimo anno il rafforzamento dell’euro è andato a detrimento di quella corrente di esportazione che l’Italia stava ben intercettando, come pure anche altri Paesi europei che sono nell’area dell’euro. A subire un effetto negativo dal rafforzamento dell’euro non è infatti solo l’Italia, ma anche le esportazioni di altri paesi europei ne risentono altrettanto negativamente.



Perché il cambio euro/dollaro è così determinante?

Il punto è che l’euro di fatto è l’unica moneta che va progressivamente rafforzandosi non solo rispetto al dollaro, ma anche nei confronti delle monete di molti paesi emergenti verso cui si dirigono le nostre esportazioni. Mi riferisco in particolare alla rupia indiana, al rublo, al real brasiliano, cioè alle valute di tre dei quattro Paesi Bric. Il fatto che queste monete si siano svalutate molto più rispetto all’euro che non al dollaro è un duplice svantaggio. Ciò riduce il potere d’acquisto di questi paesi, rendendo più costoso un acquisto dei prodotti europei rispetto a quelli americani o degli altri paesi che esportano con il dollaro. Abbiamo quindi avuto uno svantaggio molto forte della competitività dell’Europa verso i paesi emergenti che in questo momento stavano rappresentando un grosso sbocco per le esportazioni dell’Italia.



La soluzione a questo stato di cose è uscire dall’euro o svalutarlo?

Ritengo che qualsiasi ipotesi di uscita dall’euro dei Paesi del Nord vada scartata a priori in quanto è pura fantascienza. L’euro è stato rivitalizzato dalle politiche della Bce e dalle decisioni coraggiose di Draghi nel corso del 2012. Oggi la moneta unica rappresenta un dato di fatto. Più che chiederci se la politica valutaria della Bce sia quella giusta, dovremmo piuttosto interrogarci su quale debba essere la politica economica dell’Eurozona. Negli ultimi due anni la Bce ha svolto una funzione supplente verso un’Europa assente, che non è riuscita a risolvere nei tempi dovuti la crisi greca. Un anno e mezzo fa si temeva che l’euro non avesse un futuro, per colpa dell’inettitudine della Commissione Ue e dei governi europei che non si accordavano sulla strategia da seguire. Draghi ha messo una pezza, adesso non si può sempre pretendere che la Bce tolga le castagne dal fuoco.

 

Che cosa bisogna fare dunque?

Bisogna prendere atto del problema di competitività dovuto al cambio dell’Eurozona. L’Italia ha fatto bene a entrare nell’euro, perché è diventata un’economia competitiva pur avendo una moneta forte. L’euro però non può diventare troppo forte. Non dimentichiamoci che gli Stati Uniti hanno un debito pubblico molto più pesante dell’Europa, e che ogni anno l’America rischia di non chiudere il bilancio per problemi sul tetto del debito stesso che è al 110% del Pil. Sono gli stessi livelli dell’Italia nel 2011 quando era additata come un esempio di Paese poco affidabile. In queste condizioni il dollaro è debolissimo, ma anche l’Europa deve trovare il giusto equilibrio tra le fobie inflazionistiche della Germania e il rischio di indebitarci anche noi a livelli americani.

 

(Pietro Vernizzi)

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