Anche ieri le banche italiane – così come quelle spagnole – hanno fatto il loro dovere. Il Tesoro ha infatti collocato 6 miliardi di titoli, l’ammontare massimo pianificato, registrando tassi in calo e domanda in aumento su entrambe le scadenze. Il rendimento del Btp decennale (3 miliardi di titoli collocati) è sceso dal 4,50% dell’ultima asta al 4,11% odierno, mentre il rapporto di copertura è salito da 1,38 a 1,53. Risultato soddisfacente anche per il quinquennale, emesso a un tasso del 2,89% dal 3,38% precedente con una bid-to-cover passata da 1,43 a 1,65. Un successone, insomma. Ma d’altronde, a differenza dell’economia reale e delle nostre tasche, le banche di soldi ne hanno a disposizione tanti, davvero tantissimi e a costo molto basso. Non lo dico io per partito preso, lo conferma JP Morgan nel suo ultimo report, quindi non esattamente una onlus. Per la banca d’affari, infatti, l’eccesso di offerta di denaro a livello globale ha raggiunto il massimo di tutti i tempi: «L’attuale momento di eccessiva liquidità, iniziato nel maggio 2012, ci appare come il più estremo di sempre, anche a livello di magnitudine», scrivono gli analisti. Quindi, polverizzati tutti i record precedenti di liquidità col badile: il biennio 1993-1995, il periodo 2001-2006 e la fase post Lehman dall’ottobre 2008 al settembre 2010.



E cosa ci dicono al riguardo gli analisti? Da un lato che il denaro è talmente tanto da poter tenere in piedi il boom per diversi mesi ancora, ma dall’altro «potrebbero crearsi problemi di vulnerabilità sul mercato l’anno prossimo, se i fondamentali resteranno sconnessi e la liquidità dovesse cominciare a sparire». In una parola, il “taper” della Fed. A livello globale, infatti, la massa monetaria M2 quest’anno è cresciuta di 3 triliardi di dollari, su del 4,6% in soli nove mesi a quota 66 triliardi di dollari. Un triliardo di questi è allocato nel cosiddetto “blocco G4”, ovvero Usa, eurozona, Gran Bretagna e Giappone, mentre la parte de leone è toccata ai mercati emergenti con 2 triliardi di dollari, con il credito che è continuato a salire a ritmi di 170 miliardi di dollari al mese in luglio e agosto, nonostante i timori per il rallentamento del programma di stimolo della Fed. Ma come ho detto all’inizio, la liquidità c’è, abbondante ma non per tutti.



JP Morgan, ad esempio, misura la cosiddetta “broad liquidity” detenuta da aziende, fondi pensione, privati così come dalle banche, ragione per cui il programma di acquisto obbligazionario della Fed non porta con sé un aumento della fornitura di liquidità. Insomma, l’eccesso di liquidità è nei fatti il gap tra domanda e offerta di moneta: quando tornerà la fiducia, la domanda calerà e quei soldi troveranno allocazione altrove, titoli azionari come proprietà di altro genere. Il problema è che il modo in cui è stato condotto il QE finora ha innescato un effetto boom sugli assets a livello globale, mentre l’economia reale mondiale è ancora in stato di depressione, basti pensare che il volume commerciale globale ad agosto si è contratto dello 0,8%. Insomma, il QE crea eccesso di liquidità solo per il mercato: quindi, o si trova il modo di incanalare quel denaro verso l’economia reale, magari con il finanziamento a deficit di grandi progetti di investimento, oppure non faremo altro che far gonfiare sempre di più la bolla.



E qualcuno ha capito che il gioco si sta facendo davvero pericoloso. Il mega-fondo sovrano norvegese, qualcosa come 800 miliardi di dollari di potenza d’investimento, ha smesso di acquistare equity nel terzo trimestre ed è diventato un net seller: vende durante il rally. Attualmente ha il 63% degli investimenti in equities, contro il target del 60% e quindi scarica sui massimi, si libera prima che potenzialmente arrivi quella che possiamo chiamare una call sui mercati equities globali, quando o si corre a coprire i margini con i prezzi che vanno sempre più giù oppure si rischia di bruciarsi le dita con il proverbiale cerino. E guardate che l’ipotesi è estrema ma tutt’altro che sconnessa dalla realtà. Se ricordate, lo scorso 13 agosto vi parlai del “margin debt”, ovvero la somma della quantità di denaro che le istituzioni finanziarie hanno prestato per acquistare titoli azionari sul NYSE, la Borsa di New York, avendo come garanzia i titoli azionari stessi.

Per farvi capire il funzionamento, feci questo esempio. Ho 5000 dollari sul mio conto titoli con la banca XY per comprare azioni YZ ma il mio istituto, vista l’esuberanza dei mercati garantita dal QE eterno della Fed, mi garantisce la possibilità di comprare altri 5000 dollari di titoli sul NYSE prestandomeli e tenendosi a garanzia i titoli YZ che ho appena comprato. Colgo l’occasione e compro altri 5000 dollari di titoli YZ, quindi sul mio conto titoli avrò 10000 dollari in titoli YZ e un debito con la mia banca XY di 5000 dollari – su cui ovviamente pago gli interessi – per una valorizzazione netta del mio conto di 5000 dollari. Un azzardo, visto che si scommette su un debito, ma finché gli indici azionari newyorchesi sfondano un record dopo l’altro, chi ha voglia di preoccuparsi del domani: si pensa a fare soldi, il più possibile e velocemente. Ma la banca XY nel mio contratto di prestito titoli ha messo una clausola, in base alla quale ha il diritto di vendere la mia posizione azionaria se la valorizzazione netta del mio conto scende sotto una certa soglia. E non pensiate che serva un’ecatombe perché scatti la margin call e la liquidazione dei titoli: dipende da quanto margine ho e quanto cala il titolo che detengo in portafoglio.

Siccome il margin debt è un indicatore molto importante del cosiddetto “moral hazard” e dell’esposizione del mercato alla leva, a metà di ogni mese la Borsa di New York pubblica i dati relativi al totale costituito sulle azioni quotate al NYSE, ovvero quanto denaro è stato dato in prestito da tutte le istituzioni finanziarie per acquistare titoli alla Borsa newyorchese, avendo messo come garanzia altri titoli azionari. Dato complementare che viene reso noto è quello del grado di capitale libero da margini in miliardi di dollari, ovvero il denaro non soggetto a prestito da parte di istituzioni finanziarie e che viene utilizzato per operare al NYSE. Il record di “margin debt” fu toccato nel luglio del 2007, quando si registrò la cifra record di 381 miliardi di dollari: subito dopo, la crisi finanziaria globale ebbe inizio. Stessa cosa accadde nel 1999-2000.

Dopo i minimi di mercato del 2009, il margin debt risalì fino alla contrazione della tarda primavera del 2010, protrattasi per tutta l’estate e conclusasi soltanto grazie all’annuncio di fine agosto giunto da Jackson Hole, quando Ben Bernanke attivò in grande stile la stamperia di Stato. Da allora, l’appetito per il margin debt ha ritrovato vigore. Nello scorso mese di marzo il margin debt era a quota 379 miliardi, in aprile ha sfondato ogni record salendo a 384 miliardi, poi è cominciato a scendere, guarda caso in concomitanza con le prime frizioni all’interno della Fed e con la possibilità del cosiddetto “taper” che diventava sempre più reale, almeno a parole. In maggio 377 miliardi di dollari, in giugno 376,6 miliardi. Poi, in luglio ha cominciato a risalire a quota 382 miliardi, esattamente come in agosto, invariata nell’attesa del “taper sì, taper no”. L’ultimo dato a noi disponibile è quello di settembre, appena reso noto dalla NYSE: 401 miliardi di dollari, 20 miliardi più del precedente record pre-crisi.

Ecco su cosa siamo seduti: una bomba a orologeria creata dalla Fed, dalle sue politiche e dall’eccesso di liquidità. Il margin debt, infatti, ha sì un effetto moltiplicatore nel far salire le quotazioni dei titoli, ma funziona anche da dinamo quando e se dovesse scattare una margin call che faccia sparire quel denaro prestato per acquistare titoli su titoli. Se infatti per coprire la posizione si è costretti a vendere azioni in un mercato che cala, non si fa altro che accelerare la velocità e ampliare il volume del calo, tramutandolo magari in un crollo. Ora la domanda da porsi è: settembre ha rappresentato un picco? Non è domanda da poco, perché nel 2000 il picco del margin debt anticipò di sei mesi la correzione dello S&P 500, mentre nel 2007 di quattro mesi. In un caso avremmo ancora quattro mesi di tempo, nell’altro due. E ancora, se correzione sarà, visto il picco di margin debt e l’eccesso di liquidità ai massimi storici, dobbiamo aspettarci qualcosa più del -19,39% registrato tra il 29 aprile e 3 ottobre del 2011?

L’unico margine a non essere negoziabile, in una situazione simile, è infatti quello di errore: e se per caso, ieri sera, la Fed avesse deciso di sorprendere tutti avviando o annunciando a sorpresa l’avvio a breve del “taper” (viste le richieste in tal senso giunte negli ultimi giorni da JP Morgan, Pimco e BlackRock)? Ma queste cose non le leggerete sui giornali, tranquilli. E non le sentirete nei talk-show. Lì ciarlano di decadenza di Berlusconi, di voto palese, di Legge di stabilità, di Renzi, della Leopolda e del congresso Pd. E di limitazione dell’uso del contante, come piacerebbe al ministro Saccomanni. E quest’ultimo argomento dovrebbe farvi riflettere: al netto della proposta-choc del Fmi di un bel 10% di prelievo forzoso sui conti correnti, cosa c’è di meglio – se sì è già dato l’assenso a tale decisione – che l’imposizione di un primo, propedeutico, soft controllo sui capitali travestito da lotta all’evasione fiscale per evitare fughe e bank-run?

Riflettete gente, stanno passando concetti e manovre pericolose in questi giorni di Borsa che festeggia e spread basso. Le banche si ritroveranno con in tasca dei bei soldoni ulteriori dalla rivalutazione delle quote di Bankitalia, regalo del governo inserito nella Legge di stabilità e ragione per cui le aste continueranno ad andare benone, mentre voi sarete sempre più tartassati e magari chiamati alle 8 del mattino per uno scoperto di 10 euro sul conto. Ma non arrabbiatevi, c’è chi è preso in giro peggio. In Spagna, il Paese che ieri è ufficialmente uscito dalla recessione grazie a un +0,1% di crescita nel terzo trimestre (garantito dal turismo estivo che, notoriamente, è fattore strutturale di crescita per tutto l’anno, il famoso “moltiplicatore del bagnino”), le banche hanno infatti già superato gli stress test della Bce e dell’Eba e ora possono macinare utili e rally all’Ibex, salvo scontare il record storico di sofferenze e non erogando credito né a imprese, né a famiglie, peggiorando così il dato della disoccupazione.

Come hanno fatto? Semplice, il governo di Madrid garantirà loro altri 28 miliardi di capitale per migliorare la ratio Core Tier 1 grazie a garanzie statali sui crediti d’imposta. La Bce avrebbe già dato il suo consenso all’ennesimo esempio di finanza creativa – ridatemi Tonna, per carità – e la decisione dovrebbe essere ufficializzata nel mese di novembre. Fino a quando durerà la pazienza del popolo, non è dato a sapersi. Ma a breve potrebbe diventare l’unica domanda che conta veramente, parlando di economia e finanza.