Spesso si critica l’Unione europea di essere un vincolo esterno che ci impedisce di uscire dalla crisi e di progredire come Paese. Premetto che di motivi per criticare l’Ue ce ne sarebbero – la sua distanza dal cittadino, l’eccesso di burocrazia e la mancanza di una vera politica industriale e sociale – penso però che i vincoli che pone al nostro Paese sui conti dello Stato, sulle manovre economiche e sulle regole di funzionamento di diversi settori possano semmai essere positivi e persino creare maggiore beneficio di ampie fasce sociali, che soffrono di una crescente povertà e disuguaglianza, perché mirano a costruire mercati liberi e concorrenziali.
Oltretutto abbiamo molte cose da imparare dai paesi del Nord Europa e l’Ue è un’occasione di confronto e un’opportunità per le nostre tante eccellenze. L’appartenenza dell’Italia all’Europa non conviene a coloro che in Italia vivono di rendite e diritti sproporzionati e che negli anni passati si sono inseriti nelle pieghe del sistema per spendere male il denaro pubblico. Recentemente ho ascoltato gli argomenti del giornalista economico Paolo Barnard e, pur non volendo inerpicarmi in discussioni di macroeconomia e di economia monetaria, mi sento di discutere diverse affermazioni. Sostanzialmente Barnard critica l’Ue, perché ci impone austerità nella spesa pubblica, riduzione del debito, aumento della tassazione con conseguente perdita della nostra sovranità. La riduzione del debito e una più contenuta spesa pubblica sono obiettivi corretti, anche se vanno modulati in modo graduale e considerando il merito delle varie spese.
Aumentare la tassazione è giusto. Siamo il Paese con uno dei i risparmi privati più alti al mondo, che ha goduto di una spesa pubblica immane che si è trasformata spesso in rendite private. Si tratta però di fare delle distinzioni: diminuire la tassazione sul lavoro e sulle imprese e aumentare quelle bassissime sulle tasse di successione, sulle proprietà e sulle cessioni di aziende. Con l’attuale fiscalità l’Italia è un Paese adatto a fare villeggiatura e – per citare una nota testata economica nazionale “venire a morir” -, ma non certamente per lavorare e creare valore.
Per quanto riguarda la perdita di sovranità, credo sia ormai palese che il nostro sistema democratico non riesce più a creare progresso, cambiamento e modernità, ma si è avvitato in una complessità caotica che deriva probabilmente dalla nostra storia, dalla nostra cultura e dalle nostre 1000 identità e corporazioni. Un vincolo esterno, da questo punto di vista, mi sembra solo possa essere positivo. E la nostra politica? Spesso è colpevole di non riuscire a fare le cose che l’Ue ci chiede e di non utilizzare gli ancora ampi spazi di manovra legislativa, industriale ed economica che abbiamo. Le diatribe politiche sono un teatrino che riguarda spesso i destini individuali di un’ampia casta industriale, politica e corporativa, ma poco il resto del Paese. Dovrebbe invece rapidamente trovare un accordo per cambiare la fiscalità a favore del lavoro, snellire le regole e la burocrazia, che pesa su chi vuole fare, e rendere certi i tempi, i costi e gli esiti della giustizia.
Credo che ormai i tempi e i personaggi politici siano maturi per porsi questi obiettivi e raggiungerli. Se non lo faranno continueranno a scaricare i costi della crisi sui più deboli, ma la responsabilità sarà loro, non dell’Ue. Per tutto il resto, e per fortuna, c’è l’Ue , con tutti i suoi limiti ed errori che un domani potremo aiutare a risolvere.