Dunque, annunciando il taglio di un quarto di punto del costo del denaro la scorsa settimana, a seguito del dato sull’inflazione che parlava di uno 0,7% a fronte del 2% di obiettivo della Bce, Mario Draghi smentiva però il rischio di deflazione nell’eurozona. Peccato che la Spagna sia allo 0,1% di inflazione, quindi stia varcando le soglie dell’area deflazionaria, mentre la Grecia c’è in pieno. L’ultimo dato riguardante Atene è infatti il peggiore da quando viene monitorato il tasso d’inflazione, un bel -2,0% dei prezzi al consumo. Insomma, deflazione piena, l’ultimo regalo del combinato di recessione economica, tagli salariali e capacità ulteriore di contrarre i prezzi al ribasso in un contesto economico devastato. Ma si sa, guai a criticare la troika e le sue ricette. E, meno che mai, l’euro. Anzi no, a dire che l’allegra brigata formata da Bce, Fmi e Ue ha fatto più bene che male ci ha pensato nientemeno che il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, un socialista ma soprattutto un tedesco. E non basta. In quello che appare un gioco delle parti, tanto per non massacrare sempre gli stessi, l’altro giorno a lanciare un duro atto d’accusa contro le banche tedesche è stato addirittura Olli Rehn, il nostro esecutore fallimentare e testamentario.
In un articolo pubblicato dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung (Faz), il commissario europeo agli Affari economici e monetari ha infatti sottolineato che «una parte del risparmio tedesco non viene investito in maniera produttiva, ma viene pompato dalle banche in Germania e altrove in modo diretto o indiretto sottoforma di crediti nelle bolle patrimoniali e immobiliari». Accidenti! Rehn ha anche spiegato che il successo dell’export tedesco è meritato, ma la Germania deve al contempo aumentare la domanda interna per aiutare gli altri paesi dell’Eurozona a superare la crisi: «Ciò che è necessario è prevenire eventuali sviluppi che alla lunga potrebbero mettere a rischio la sostenibilità di questo successo, cosa che è anche nell’interesse della Germania».
Il commissario europeo riconosce che «i prodotti tedeschi sono richiesti sul piano mondiale e risultano competitivi per qualità e prezzo, ma l’eccesso positivo della bilancia commerciale tedesca significa anche che questi utili vengono realizzati non in Germania ma all’estero». Mi sembra di aver già letto questa tesi, ma non mi ricordo dove… Infine, Rehn ha spiegato che «una maggiore domanda proveniente dalla Germania non conduce subito a un forte aumento delle esportazioni dei paesi alla periferia, ma potrebbe contribuire a far superare la crisi, se questi paesi non allentano le riforme strutturali. Se la Germania aumenta la sua domanda e gli investimenti e se la Francia porta avanti le riforme strutturali, entrambi i maggiori paesi dell’Eurozona contribuiranno alla crescita, all’occupazione e al benessere in tutta Europa».
Il problema, però, è che alla fine dei conti alla Germania non interessa nulla di riattivare la crescita in Europa, altrimenti non avrebbe accumulato un surplus commerciale del 7%, tre volte quello cinese. La Germania agisce come se l’Ue fosse cosa sua, ce lo dimostra l’atteggiamento tenuto proprio nei confronti della Grecia: due anni di ritardo nell’agire per il semplice fatto che prima della ristrutturazione del debito occorreva che le banche tedesche scaricassero il più possibile obbligazioni elleniche e a un prezzo ancora decente, prima dell’haircut e dello sconto a bilancio delle perdite. Idem, come vi ho dimostrato tempo fa, la situazione cipriota, dove le banche tedesche detenevano miliardi in conti vincolati al 6% di rendimento: quindi, nonostante la situazione delle banche di Nicosia fosse nota da tempo, almeno da quando era precipitata la situazione greca, prima di intervenire si è aspettato che scadesse il vincolo temporale di quei depositi e che gli stessi fossero rimpatriati. Poi si è intervenuti, non con gli aiuti ma con il bail-in, ovvero facendo pagare obbligazionisti e correntisti delle banche. Ma se questi due esempi di atteggiamento tedesco non vi bastano, ora andiamo sull’attualità. E su qualcosa che potrebbe interessarci personalmente tra non molto.
Uno degli indicatori che tengo maggiormente sotto controllo, trimestralmente, è quello relativo alle esposizioni bancarie Paese-su-Paese offertoci dalla Banca per i regolamenti internazionali. Ovvero, quanto le banche dei vari paesi sono esposte all’estero verso nazioni terze. L’ultimo dato, quello relativo alla fine di giugno di quest’anno, ci mostra un trend ormai consolidato. E tutt’altro che tranquillizzante. Vi siete mai chiesti perché la Germania non abbia mai, dico mai, avuto nulla da ridire sulla situazione spagnola e perché sia stata la prima a dare luce verde alla ricapitalizzazione del sistema bancario iberico con 41 miliardi di euro? Vi siete mai chiesti perché, a fronte di dati macro da brividi, la Spagna stia godendo di spread basso e soprattutto di ottima stampa, tanto da sentirci dire ai quattro venti che il Paese è ufficialmente uscito dalla recessione (con le sofferenze bancarie a quasi il 13%)? Ve lo dico io. La Germania, anzi le sue banche, erano troppo esposte verso la Spagna, occorre applicare la cura greca, ovvero prendere tempo, stabilizzare la situazione artificialmente al fine di non far crollare il valore di obbligazioni e titoli e intanto cominciare a scaricare silenziosamente, riducendo le esposizioni.
Verso la Spagna, ma anche verso l’Italia. Nel terzo trimestre del 2012, così come per i due precedenti, Germania e Francia hanno continuato a ridurre le loro posizioni su Madrid e su di noi, ma a differenza di Parigi, Berlino – anzi, le sue banche – hanno cominciato a scaricare almeno due trimestri prima. Zitte zitte, lente ma continue. Le banche francesi tra la fine del 2009 e la fine del 2011 avevano ridotto la loro esposizione verso l’Italia di 175 miliardi di dollari, una riduzione del 34,5%, ma la loro esposizione verso il nostro Paese restava altissima: alla fine del 2011 le banche francesi avevano un’esposizione verso l’Italia di 332 miliardi di dollari, contro i 114 miliardi verso la Spagna.
E la Germania? Nello stesso periodo, fine 2011, la Germania aveva più esposizione verso la Spagna che verso Roma: ovvero, 146 miliardi di dollari contro 134. E ora, con l’ultimo dato disponibile? La Francia ha invertito la tendenza: le banche transalpine hanno ridotto in tre trimestri la loro esposizione verso la Spagna di soli 7 miliardi di dollari, a quota 107 miliardi, mentre hanno aumentato quella verso l’Italia, salita a 337 miliardi. E le banche tedesche? A fine giugno di quest’anno erano esposte per 122 miliardi verso la Spagna e per 125 verso l’Italia. Continuano a ridurre le posizioni, continuano a vendere.
In compenso, se le banche italiane sono esposte verso la Francia solo per 35 miliardi di dollari, lo sono per 232 verso la Germania e solo per 18 verso la Spagna. Ovvero, i nostri istituti sono sì esposti verso l’estero, ma verso Paesi “core” e forti, visto che dopo la Germania c’è l’Austria con 98,4 miliardi di dollari e poi il Regno Unito, quindi addirittura fuori dall’area euro, con 46 miliardi di dollari. Questi numeri pesano quando si parla della stabilità di un sistema bancario: di converso, il nostro è intasato di titoli di Stato nostrani, 470 miliardi di euro di controvalore, ma ha esposizione estera totale di 808 miliardi di dollari, di cui 537 in Europa, di fatto concentrata in tre paesi “sicuri”. La Germania, invece, continua a ridurre posizioni, ha bisogno di abbassare ancora l’esposizione alla Spagna prima che la verità possa venire a galla e il miracolo iberico, esattamente come il boom di Zapatero tramutatosi in una gigantesca bolla finanziaria-immobiliare, si trasformi nell’incubo del Sud Europa, capace di trascinare immediatamente con sé il Portogallo.
Direte voi, se i tedeschi scaricano chi sta comprando, visto che lo spread resta basso? I giapponesi, ad esempio, i figli del diluvio di liquidità nipponica noto come “Abenomics”. Gli investitori del Sol Levante si stanno infatti riavvicinando timidamente al mercato obbligazionario periferico della zona euro, scommettendo che il peggio della crisi del debito sia alle spalle e che la politica monetaria espansiva sosterrà in futuro le quotazioni del debito europeo. Secondo i numeri diffusi ieri mattina da Tokyo, a settembre gli investitori giapponesi hanno realizzato acquisti netti di bond italiani per 35 miliardi di yen, circa 264 milioni di euro, il primo saldo positivo da sei mesi e il dato più consistente da giugno 2011. Più consistenti gli acquisti di bond spagnoli: 46,5 miliardi di yen, la cifra più alta da marzo 2011.
Dal picco della crisi sul debito della zona euro, quindi da luglio 2011 a settembre 2012, gli investitori giapponesi hanno venduto complessivamente 1.581 miliardi di yen (quasi 12 miliardi di euro) di bond italiani e 374 miliardi di bond spagnoli. Ma non solo loro: hanno comprato le nostre banche e quelle iberiche, oltre che qualche grosso fondo obbligazionario in cerca di rendimenti e in fuga dai Treasury durante lo shutdown. La Germania, però, il pivot di questa crisi, sta continuando ad abbassare le sue detenzioni, forte anche della liquidità garantita da Bank of Japan e Fed che induce tutti a comprare e a trasformare qualsiasi notizia economica, anche la più disastrosa, in un motivo per il “buy”.
Attenzione, entro fine anno le banche tedesche avranno scaricato ancora un po’ del loro fardello spagnolo e quando il livello sarà quello prestabilito, allora i tremori dello spread potranno tornare, perché la tentazione sarà quella di seguire l’esempio di Deutsche Bank nel 2010: scaricare in un botto detenzioni per miliardi, facendosi sentire bene dal mercato. Magari dopo Natale, magari in primavera. Già, subito dopo quella farsa degli stress test bancari che vedrà tutti gli istituti iberici promossi a pieni voti, grazie anche ai 26 miliardi di capitale garantito dallo Stato truccato da credito d’imposta. A quel punto sul mercato sarà festa grande e un soggetto primario del sistema bancario o assicurativo tedesco potrebbe scaricare sul mercato ai prezzi quasi massimi le detenzioni, inviando ai grandi players un segnale chiaro su chi stia per finire sul patibolo.
Questa volta, però, potrebbe non bastare un governo tecnico d’emergenza a evitarci la ristrutturazione del debito e il commissariamento. Spero di sbagliarmi.
P.S.: Come avrete notato non ho parlato né oggi, né la scorsa settimana del collocamento di Twitter alla Borsa di New York. Il perché è semplice: come per Facebook e altri social network, sono certo che questi titoli siano solo la riproposizione in brutto della bolla dot.com. Non a caso, il titolo di Twitter ieri perdeva già il 20% dai massimi della scorsa settimana, ovvero è entrato in “bear market” dopo solo tre giorni di contrattazioni. Auguroni ai gonzi che ci sono cascati anche questa volta, le banche collocatrici ridono e ringraziano.