Finora lo si era letto solo sui libri o magari in racconti di terre lontane come il Giappone. Tutte le generazioni negli ultimi sessant’anni hanno vissuto solo l’inflazione e per loro la deflazione è qualcosa di lontano nel tempo e nello spazio. Invece, si sta avvicinando a passi da gigante anche in Italia e gli ultimi dati dell’Istat lo confermano. Giorgio Squinzi, presidente della Confindustria, ha lanciato l’allarme: se i prezzi scendono persino con l’aumento dell’Iva, allora vuol dire che la deflazione arriva davvero. Gli ha fatto eco la Coldiretti mostrando l’andamento dei prezzi agricoli. Mario Draghi ne ha evocato lo spettro giovedì scorso: “Se per deflazione intendiamo un calo generalizzato che si autoperpetua, ebbene questo non c’è in Europa”, ha detto. Ma sa bene che il rischio è concreto, tanto bene da aver ridotto i tassi di interesse allo 0,25% con un vero e proprio blitz che ha sorpreso i mercati e lo ha messo ancora una volta contro il mondo germanico ossessionato dalla paura opposta.



Considerando l’intera Ue, probabilmente Draghi ha ragione, anche se la Bce si è data come obiettivo una crescita dei prezzi fino al 2% e il dato medio di 0,7% è lontanissimo (e per di più in discesa). Una vera deflazione finora c’è solo in Grecia con i prezzi negativi per quest’anno e probabilmente per il prossimo. A livello tendenziale l’indice al consumo ha registrato una riduzione di due punti percentuali nel mese di ottobre, mentre la media annua è calata dello 0,4%. I dati di Elstat, l’Istat ellenica, collimano con le stime elaborate dalla Commissione europea, secondo cui i prezzi diminuiranno dello 0,8% nel 2013 e dello 0,4% nel 2014 per salire dello 0,2% nel 2015. In Grecia la maggior parte dei prodotti quotidiani è meno cara. Solo alcol e tabacco sono in aumento, ma dipende dalla forte imposizione fiscale.



In Italia l’indice nazionale dei prezzi al consumo è sceso in ottobre dello 0,2% rispetto a settembre, mese in cui era stato negativo per lo 0,3%. L’Istat calcola che su base annua c’è ancora un’inflazione dello 0,8%, ma se prendiamo il dato mese dopo mese vediamo che già a ottobre 2012 la crescita era zero e a novembre eravamo a -0,2%. Dunque, un anno fa c’erano i primi segnali inquietanti. Poi calma piatta ancora ad aprile e maggio, mentre gli altri mesi hanno fatto registrare piccolissimi incrementi. La curva tendenziale, che registra gli incrementi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, è ormai un piano inclinato (come si può notare nel primo grafico a fondo pagina). E il trend conta più delle cifre assolute.



La situazione è nettamente peggiore se prendiamo i prezzi alla produzione industriale. Qui l’ultimo dato Istat riguarda settembre, e siamo a un -1,8% che peggiora ancora escludendo le esportazioni: i beni industriali venduti in Italia, infatti, sono scesi di 2,2 punti percentuali (vedasi il secondo grafico a fondo pagina). Gli uni e gli altri sono in territorio negativo già da gennaio.

Naturalmente bisogna fare dei distinguo: il contributo maggiore alla frenata è venuto dall’energia e non solo in Italia, ma nell’intera area euro, per una serie di motivi strutturali ai quali non sono aliene le fonti alternative sovvenzionate dai governi. Non solo, anche le telecomunicazioni, grazie alla guerra dei prezzi, fanno registrare brusche cadute. Dunque, abbiamo il combinato disposto di una crisi energetica che riduce i costi di produzione nelle imprese manifatturiere e di una deflazione benefica per gli utenti telefonici, dovuta alla concorrenza. Anche al netto di questi fattori, però, il dato generale resta negativo, peggiore per i beni strumentali che per quelli di consumo. Insomma, cifre e tendenze lasciano pochi dubbi: ci siamo e c’è da aver paura.

Se i prezzi scendono si riduce anche la convenienza a produrre e vendere. E se, come sempre avviene, vanno verso il basso le retribuzioni, allora diminuisce pure la domanda di beni di consumo. Non cala, invece, il costo del debito. Anzi, in termini reali diventa più pesante. La discesa generalizzata dei prezzi colpisce anche il processo di smaltimento dei debiti per le imprese e le famiglie (il deleveraging dell’intera economia), premessa per il ritorno a una crescita solida e sana di medio periodo. Ecco perché la deflazione può avere l’effetto di una bomba atomica in Grecia, Italia, Portogallo, Irlanda, i Gipi, i quattro paesi con un debito pubblico superiore al 100% del Pil. Ma attenzione, nessuno verrà risparmiato dall’onda d’urto.

Gli Stati Uniti hanno sperimentato un andamento negativo dei prezzi al consumo nel marzo del 2009 e non accadeva dal 1955. Immediatamente, la Federal Reserve ha lanciato il primo piano di Quantitative easing (espansione monetaria attraverso l’acquisto di titoli di Stato e titoli agganciati ai mutui subprime). Già alla fine dello stesso anno l’inflazione è ripartita, avvicinandosi al 2% per poi sfiorare il 4% l’anno successivo. Oggi è scesa all’1,2%, nonostante una montagna di soldi riversati sui mercati con tre piani di Qe (il terzo ancora in corso). La liquidità è finita soprattutto a Wall Street anziché in Main Street, cioè è stata attirata ancora una vota dal grande gioco azionario anziché alimentare la produzione e il consumo. Dunque, un rischio esiste anche negli Stati Uniti. E ciò la dice lunga sui limiti di una politica monetaria coraggiosa, ai limiti dell’azzardo, come quella americana.

Se non si spezza il circolo perverso, non c’è crescita sostenibile. Ieri la Banca d’Italia ha diffuso il suo rapporto sulla stabilità finanziaria e sostiene che la ripresa è (ancora) dietro l’angolo. Si parla dei molti fattori di rischio, più o meno i soliti (debito pubblico, incertezza, timori del futuro, bassa competitività). Ma forse bisognerebbe dire a chiare lettere che oggi il pericolo maggiore per il breve periodo viene proprio dalla deflazione, con tutto quel che ne consegue. Per sconfiggerla non c’è altra strada che ampliare la domanda interna. Una mossa chiave, forse davvero il primo passo da compiere, è l’aumento dei salari compressi oltre ogni limite tollerabile nell’intera Ue, compresa la Germania, dove è in corso il braccio di ferro tra Cdu-Csu e Spd sull’introduzione di una retribuzione minima di 8,5 euro l’ora.

L’Italia ha un problema in più perché il costo del lavoro per unità di prodotto continua a salire nel momento stesso in cui le retribuzioni scendono. È il paradosso del cuneo fiscale al quale s’aggiunge quello della produttività, soprattutto nei settori industriali protetti dalla concorrenza e nei servizi. Uno schiacciamento dei profitti tra prezzi in discesa e produttività in salita è destinato a compromettere gli investimenti che sono la molla della crescita. Dunque, maneggiare con cura.

Tuttavia è arrivato il momento di ricordare la lezione di Henry Ford, il quale aumentava i salari ai suoi operai non solo per incentivarli a lavorare meglio, ma anche perché così avrebbero comprato le auto che producevano.