Il dibattito sulla Legge di stabilità ha preso una brutta piega: la lettura delle cronache sui giornali, e ancora di più quella dei resoconti sommari parlamentari, danno l’impressione che in Senato sia in atto una vera e propria “fiera delle tasse” con scambi tra favori e penalizzazioni fiscali (per tassa si intendono anche imposte, accise, canoni e quant’altro). Destinata a ripetersi alla Camera dei Deputati. Tanto più che nessuno pare temere l’esercizio provvisorio, che potrebbe anzi essere il pretesto per prorogare equilibri fragili e ostacoli. Si può controbattere che la “fiera delle tasse” è sempre esistita: ne parla Cicerone nella Catilinarie e i Founding Fathers (Padri Fondatori) degli Stati Uniti coniarono il termine pork barrel per indicare la quantità di carne di maiale che nel New England rurale si usava dare al parlamentare che perorava una causa vicina agli interessi (anche legittimi) dell’offerente.



Tuttavia, questa volta, lo spettacolo è davvero brutto: con e-mail riprodotte sui giornali, legioni di lobbysti che bivaccano nei dintorni di Palazzo Madama, proposte monetarie che paiono circolare nei corridoi del potere, altri burocrati che sarebbero pure loro coinvolti nella “fiera”. Lo spettacolo è desolante. Incoraggia l’anti-politica, i movimenti e i partiti anti-sistema, deprime le persone oneste e, soprattutto, spinge le fasce migliori dei giovani (in termini di professionalità e di entusiasmo) a cercare la strada per l’estero.



C’è, però, un aspetto forse ancora più grave: la “fiera delle tasse” in Parlamento si sta svolgendo senza tenere conto che a livello mondiale è in atto, da circa trent’anni, un’altra ben più profonda “fiera delle tasse”. Mentre gli Stati nazionali (o aree come l’Unione europea) si illudono di essere i depositari della “potestà fiscale” (com’è stato dalla “pace di Westfalia” alla fine del secolo scorso), l’integrazione economica internazionale ha drasticamente indebolito proprio questo loro aspetto e funzione.

Nel 1991, Giulio Tremonti (allora non ancora entrato in politica) e Giuseppe Vitaletti lo dimostrarono in un libro edito da Il Mulino e intitolato, per l’appunto, “La Fiera delle Tasse”: sempre di più i soggetti individuali e collettivi (ossia le persone e le imprese) possono scegliere il sistema tributario a loro più confacente; tutti sappiamo di persone e individui che si “delocalizzano” per avere un regime tributario più favorevole. Il libro di Tremonti e Vitaletti indicava anche una strada: spostare l’imposizione dai soggetti (persone e imprese) alle cose. Ne articolavano la strategia.



Si possono accusare i due autori, a torto o a ragione, di essere, o essere stati, contigui al centrodestra. Nello stesso periodo, però, Pierluigi Ciocca, mai vicino al centrodestra, nella prefazione alla raccolta di saggi “Disoccupazione di Fine Secolo” (Bollati Boringhieri) documentava che in un mondo in cui il Nord America ha un carico tributario attorno al 30% del Pil e i Paesi asiatici emergenti del 20%, con il nostro 46% rischiamo di andare verso il declino sempre più grave e la disoccupazione di massa sempre più lunga. Thomas Friedman, idolo di varie sinistre, chiama l’integrazione economica internazionale “una camicia di forza tutto d’oro” dove chi non si adegua a bassa pressione tributaria, regole semplici e fisse, non può non soccombere.

Le vicende della vertenza dell’imposizione tributaria relativa a Google, Facebook e altri colossi internet mostrano come sia vasta la “fiera delle tasse”. Voglio però ricordare che già nel 1992, nella centralissima Via Lagrange a Torino, faceva bella mostra un Hotel Particulier della Regione (francese) Rhône-Alpes in cui si mostravano gli incentivi (in termini di minor imposizione) di cui avrebbero fruito imprese, professionisti e lavoratori che avessero deciso di varcare il confine. La “fiera” era già iniziata. Ne scrissi sulle testate a cui collaboravo e ne parlai con leader politici. Risultati nulli.

È di questa “fiera delle tasse” che si dovrebbe parlare a Palazzo Madama e Montecitorio, non di ritocchi al margine di un sistema soffocante e tale da lasciare i nostri figli in un cumulo di macerie. Come quello immortalato da Roberto Rossellini in Germania Anno Zero.