In assoluto, appaiono come cifre imponenti, eppure rappresentano un compromesso misero e al ribasso; il Parlamento europeo, dopo 29 mesi di negoziati, ha approvato il bilancio settennale: 960 miliardi di euro di impegni, e 908 di pagamenti. Ciò significa che gli stanziamenti sono stati ridotti del 6% rispetto al bilancio precedente. E, una cosa del genere, non era mai accaduta prima. È stato lo stesso presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz, a far presente come l’operazione si sia conclusa con la totale assenza di ambizione. Ne abbiamo parlato con Leonardo Becchetti, professore di Economia politica presso l’Università Tor Vergata di Roma.



Come giudica il compresso raggiunto in Europa?

Indubbiamente, è positivo che si sia puntato sulle iniziative infrastrutturali. Sia edilizie che tecnologiche. Mi riferisco, in particolare, agli interventi per portare ovunque la banda larga. Noto anche la tendenza (importantissima se pensiamo a quello che è successo in Sardegna) a premiare il valore socio-ambientale delle filiere, premiando cioè chi produce  in maniera sostenibile. Sarebbe stato preferibile, in tale settore, maggior coraggio in termini di incentivi e sgravi fiscali. Per il resto, purtroppo, registro ancora una volta che, invece di studiare politiche di sviluppo, realizzabili esclusivamente aumentando gli investimenti, il dibattito è stato condizionato dal “complesso di Weimar”.



Cosa intende?

La Germania ha preteso che la sua concezione severa del debito fosse accettata anche dagli altri paesi. Facendo finta di dimenticare che la situazione attuale le sta garantendo enormi benefici, a svantaggio degli altri: da anni, infatti, a causa degli elevati differenziali tra i tassi di scambio, si sta finanziando a costi bassissimi. Va anche detto che, come ha fatto presente la Commissione Ue, non ha senso che la Germania accumuli un tale surplus, giocando sugli spread, e non lo usi per rilanciare il bilancio comunitario e alimentare la domanda interna. Tutto ciò, aggrava la difficoltà dei Paesi del sud a stare entro i vincoli imposti dal Fiscal compact.



Verosimilmente, il bilancio potrebbe essere ulteriormente ritoccato. Su che punti dovrebbe insistere il nostro governo?

Se l’Italia farà presente che un bilancio del genere ci crea dei problemi, potremo riuscire ad allentare i vincoli del Fiscal compact. Non sarà questa, in ogni caso, la misura decisiva per uscire dalla crisi.

Lei cosa suggerisce?

Usciremo da questa condizione e salveremo l’euro se, anzitutto, la politica monetaria della Bce non si limiterà più all’abbassamento dei tassi, iniziativa di per sé inefficace, ma acquisterà titoli direttamente sul mercato aperto, mettendo, quindi, dei soldi nelle tasche dei cittadini. Questo, attualmente, non può farlo, perché i trattati europei lo impediscono. Ebbene, che si cambino i trattati. Se non farà questo, continueremo a subire i costi sociali della globalizzazione, e a non intascare i dividendi monetari.

 

Ci spieghi.

Il costo sociale consiste nella concorrenza tra i paesi avanzati, dove i lavoratori sono sindacalizzati e ben pagati, e i paesi in cui i lavoratori sono sottopagati. Tale circostanza determina una tensione che induce fenomeni quali le delocalizzazioni, con la conseguente erosione del nostro sistema produttivo e, di conseguenza, del pil. Ebbene, questo costo può essere controbilanciato da un effetto positivo della globalizzazione, come Stati Uniti e Giappone hanno imparato a fare: oggi, è possibile incassare un dividendo monetario perché stampare moneta non ha più gli effetti inflattivi di una volta.

 

Perché no?

Le aziende che producono in Italia e sono in concorrenza con i paesi emergenti non possono di certo alzare i prezzi a piacimento; inoltre, stampare moneta è funzionale a ricostruire quella base monetaria che, tipicamente, si erode in seguito alle grandi crisi bancarie. C’è, infine, un’ultima riforma necessaria per ottimizzare le precedenti.

 

Quale?

Non ha senso che la Banca d’Italia disponga di 131 miliardi di euro di riserve accumulate negli anni semplicemente trasferendo al governo una quota delle rendite del signoraggio inferiore a quella degli altri Paesi. Queste risorse si potrebbero usare, come ha proposto Quadrio Curzio, come fondo di garanzia per l’emissione di eurobond. Per far questo, sarebbe sufficiente sanare l’anomalia che vede Bankitalia, un istituto pubblico che si occupa di cose pubbliche, di proprietà di azionisti privati, per lo più grandi banche. Dovrebbe, quindi, diventare di proprietà dello Stato.

 

(Paolo Nessi)