Detto fatto, la Germania comincia a sistemare le pedine sulla scacchiera dell’attacco contro Italia e Spagna. Mentre le sue banche e società assicuratrici vendono con gioia il nostro debito pubblico e quello iberico alle masse festanti di figli della Fed, è la Bundesbank a lanciare il segnale. La potente banca centrale tedesca, infatti, a pagina 33 del bollettino di novembre piazza il bel grafico che vedete a fondo pagina e un atto d’accusa che pare fatto apposto per agitare le acque: i sistemi bancari e gli Stati sovrani del sud Europa sono ancora bloccati nel circolo vizioso che li vede inestricabilmente legati, gli uni acquistando i titoli che gli altri emettono al fine di mantenere basso lo spread.



Direte voi, la scoperta dell’acqua calda. E avete ragione. Il problema è che dopo quello che vi ho detto nelle ultime due settimane, veder stampata questa realtà sul bollettino mensile della Buba, non mi lascia affatto tranquillo. L’istituto guidato da Jens Weidmann snocciola cifre impietose: le banche italiane hanno aumentato le loro detenzioni di debito pubblico del 75%, passando dai 240 miliardi del novembre 2011 ai 415 attuali. Peggio hanno fatto quelle spagnole, passate da 166 a 299 miliardi, un bell’81% in più. Nello stesso periodo, un bel +60% per le banche irlandesi e un +51% per quelle portoghesi. Conclude la Buba: «La mutua dipendenza di banche e settore statale è cresciuta maggiormente in quelle nazioni che conoscevano già un grado di interdipendenza molto alto da principio».



Ora, due considerazioni. Primo, la Buba ha ragione in linea di principio, visto che le banche dovrebbero gestire risparmio ed erogare credito, invece che riempirsi di titoli di Stato sovrani per far contento il governo di turno (che poi magari restituirà il favore nella Legge di stabilità con la folle rivalutazione delle quote in Bankitalia), lasciando morire migliaia di piccole e medie imprese e facendo pagare il denaro all’8-9% a famiglie che già faticano ad arrivare alla metà del mese. Secondo, però, le banche tedesche cosa fanno di diverso? Nulla, a parte che si gonfiano di titoli di Stato esteri per finalità puramente speculative sul carry-trade, salvo obbligare un intero continente ad aspettare rispettivamente due anni e sei mesi prima di intervenire per Grecia e Cipro, visto che nel primo caso andavano scaricati i bond detenuti e nel secondo occorreva far scadere i vincoli temporali per i lucrosi depositi bancari. Quindi, la Buba stia zitta che di lezioni non può darne a nessuno (a meno che non voglia spiegarci le miracolose esposizioni ai derivati di Deutsche Bank, contabilizzate in stile Parmalat, nel qual caso io ascolterei volentieri).



Se la Bce non può dare corso alla sua minaccia-promessa – ovvero, fare qualsiasi cosa per salvare l’euro – è abbastanza chiaro che il suo ruolo viene compiuto dalle varie banche commerciali dei paesi membri, visto che due fiammate speculative sullo spread sono bastate per far alzare la guardia a tutti. Questa dinamica, però, sta diventando ogni giorno più rischiosa. Le nostre banche e quelle spagnole, infatti, stanno comprando titoli di paesi le cui traiettorie di debito stanno andando sempre più fuori controllo: dal 2010 a oggi, grazie a scienziati e tecnici vari, il nostro debito pubblico è passato dal 119% al 133% del Pil e la maturity media dei nostri titoli è scesa parecchio, visto che il Tesoro tendeva ad emettere massicciamente entro la finestre dei tre anni fissata dalla Bce nelle sue aste di finanziamento Ltro. Anche la ratio spagnola è peggiorata molto, passando negli ultimi tre anni dal 62% all’attuale 94%.

Più le banche continuano a scommettere sui debiti di quegli Stati, più l’azzardo si fa pesante. Tanto più che, come vi dicevo martedì, stanno salendo esponenzialmente anche le sofferenze bancarie, sia in Italia che in Spagna, dove ormai sono al record storico del 12,68%, ovvero qualcosa come prestiti per 188 miliardi di euro underwater. Andati, persi. E se ne stanno accorgendo un po’ dappertutto, non solo in Europa.

Due analisti di Nomura, Daragh Quinn e Jaime Hernandez, citati dal Daily Telegraph, la scorsa settimana hanno lanciato un vero e proprio grido d’allarme rispetto allo stato di salute delle banche iberiche e lo hanno fatto utilizzando la cosiddetta “Texas Ratio”, il metodo valutativo usato nella crisi bancaria del 1989, quando in Texas fallirono 130 banche. Come funzioni è presto detto, per calcolare si prendono le sofferenze e gli assets proprietari e li si divide per l’equity tangibile e gli approvvigionamenti totali. Una ratio sopra il 100% normalmente porta al fallimento. Bene, Banco Popular è al 123% dal 109% dello scorso anno, la nazionalizzata Bankia addirittura al 372% e Sabadell al 100% spaccato. Ecco le sanissime, strapiene di Bonos e già salvate dall’Ue, banche spagnole. E l’Italia non può proprio stare tranquillissima, visto che il Rapporto sulla stabilità finanziaria di Bankitalia pubblicato la scorsa settimana parla chiaramente di «una rapida crescita delle sofferenze bancarie, principalmente verso aziende, come risultato di una protratta recessione», mettendo in guardia sul fatto che le tensioni finanziarie «potrebbero riaffiorare il prossimo anno, quando andrà a chiudersi la finestra di tre anni dei finanziamenti Ltro». E quando si terranno gli stress test, i quali saranno sicuramente una farsa come quelli che li hanni preceduto ma porteranno comunque con sé tensioni speculative e deleverage da parte degli istituti, non proprio una manna per banche già in crisi.

Cosa succederà se per caso una o più banche spagnole o italiane falliranno gli stress test e dovranno essere ricapitalizzate? L’haircut greco e soprattutto il bail-in cipriota sono precedenti che ci dicono come a pagare il prezzo non sarà più l’Ue ma i detentori di bond, gli azionisti e anche i correntisti non assicurati (sopra i 100mila euro): quale reazione si creerebbe in un mercato come quello italiano? Come reagirebbero i titoli di tutti gli altri istituti, anche quelli che gli stress test li hanno superati? Come reagirebbe la gente? Partirebbero corse ai depositi per ritirare, panico e a quel punto lo Stato cosa potrà e dovrà – e, forse, vorrà – fare? Controlli di capitale, come a Cipro, dove dovevano restare in vigore poche settimane e sono invece ancora attivi oggi. Quella ricetta è la strada verso la rovina finale, ma purtroppo pare ormai sia stata accettata da tutti: un solo caso cipriota in Italia e sarà il caos totale.

La Bce potrebbe fare molto, se la Germania non mettesse perennemente i bastoni tra le ruote con i suoi veti: come vado ripetendo da settimane, la questione si basa tutta sul denominatore. Se si va ad agire sul Pil nominale, la questione del debito non dico che si risolva ma certamente una parte sostanziale dei problemi che affliggono Italia e Spagna svanirebbe. Un blitz monetario sarebbe sufficiente, un qualcosa che una banca centrale può e – in casi di emergenza come questo – deve fare. È ovvio che poi gli Stati dovranno agire per abbassare quelle ratio ma non lo si fa certamente attraverso meccanismi miopi e suicidi come il Fiscal Compact o con politiche di austerity che uccidendo la crescita non fanno altro che far crescere il debito in proporzione: non ci vuole un premio Nobel, credo.

Certo, la colpa di quel debito è nostra e noi dovremo dare una risposta, ma anche aver lasciato scivolare l’eurozona in deflazione bocciando ogni manovra di stimolo preventivo negli scorsi mesi è una colpa, anche aver fatto finire la massa monetaria M3 in negativo è una colpa, anche aver obbligato la Bce nel 2011 a due folli aumenti dei tassi è una colpa. Non nostra, in questo caso. E poi, forse, è il caso di ricordare come la Germania saputella e maestrina sia stata essa stessa salvata dall’Ue, cosa che invece l’Italia non ha dovuto (ancora) richiedere, essendo contributore netto.

Sì, avete letto bene: la Germania è stata salvata. Certo, la vulgata vuole che sia la responsabile Germania ad aver salvato la scavezzacollo Grecia, che si indebitava più di quanto non fosse in grado di gestire, ma basta dare un’occhiata ai flussi di denaro e agli stati patrimoniali delle banche centrali da quando è scoppiata la crisi in poi per rendersi conto che se ci sono Stati che si indebitano irresponsabilmente è perché ce ne sono altri che prestano irresponsabilmente in nome del profitto. A dicembre del 2009, stando a dati della Banca per i regolamenti internazionali, le banche tedesche erano esposte a Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna per 704 miliardi di euro, molto più del capitale aggregato di quegli istituti. Insomma, aveva prestato più di quanto potessero permettersi.

Una volta precipitata la situazione, non solo la Germania ha politicamente rallentato ogni decisione sulla Grecia per permettere a banche e assicurazioni di scaricare una parte di quel debito a un prezzo ancora decente e soprattutto prima della ristrutturazione ma gli stessi istituti sono rientrati del resto grazie ai soldi comunitari. Insomma, è stata la struttura stessa dell’unione monetaria a rendere automatico e semplice il salvataggio delle banche tedesche. Quando infatti queste portavano via denaro dalla Grecia, le altre banche centrali dell’area euro davano vita a un offset di quel flusso in uscita con prestiti alla Banca centrale greca, i quali apparivano nella stato patrimoniale della Bundesbank come “avere” nei confronti della zona euro. Inoltre, se la Grecia non avesse onorato il suo debito, le perdite si sarebbero spalmate su tutte le nazioni dell’eurozona, in base alla contribuzione che hanno nella Bce. La Germania è al 28%, quindi tutto il resto sarebbe stato coperto dalle altre nazioni, le quali avrebbero garantito il 70% delle perdite su debito ammassato nei bilanci dalle responsabilissime banche tedesche.

Dal dicembre 2009 alla fine del 2011, le banche tedesche hanno portato via da altri paesi dell’eurozona circa 353 miliardi di euro, mentre la voce “avere” della Bundesbank verso le altre banche centrali era a quota 466 miliardi di euro. Per finire, dei 340 miliardi ottenuti dalla Grecia, soltanto 15 sono arrivati direttamente dalla Germania. Così, tanto per ricordare un po’ come sono andate davvero le cose. Un promemoria per un futuro molto prossimo.