“Assogestioni ha tutti i presidi e le regole necessarie per minimizzare i rischi legati a situazioni di questo tipo”. Andrea Beltratti, ex presidente del Consiglio di gestione di Intesa, oggi al vertice di Eurizon, usa un linguaggio da responsabile della Protezione civile. Ma l’alluvione da cui proteggersi, per fortuna, non ha nulla a che vedere con i disastri che investono con frequenza crescente il territorio del Bel Paese. Il “rischio” è che, in occasione della prossima assemblea di Telecom Italia, la lista presentata dai gestori delle sgr italiane, grazie al non sollecitato appoggio della Findim di Marco Fossati, si ritrovi a esprimere la maggioranza del cda, estromettendo l’attuale consiglio designato a maggioranza da Telco.



È senz’altro una situazione delicata, per certi versi paradossale, quella che si è determinata nell’ex incumbent delle tlc: a) l’accordo tra i soci Telco (Generali, Intesa e Mediobanca, oltre a Telefonica) apre la strada alla leadership degli spagnoli; b) l’interesse strategico della società madrilena consiste nel rimuovere gli ostacoli dell’antitrust in Argentina e Brasile, promuovendo la vendita delle due società (scelta già fatta a Buenos Aires, assai probabile a San Paolo), oltre a paletti ben precisi sul futuro della rete di trasmissione e investimenti connessi alla banda larga; c) nelle more dell’assemblea e di scelte strategiche decisive, la società ha proceduto a tempi record all’emissione di un convertendo offerto in pratica solo a Telefonica e ad alcuni investitori internazionali, tra cui BlackRock, il colosso delle gestioni di risparmio Usa.



Insomma, senza voler entrare in questa sede nel merito delle scelte industriali e del possibile futuro delle tlc italiane (tema che merita ampia trattazione) prendiamo atto che la sorte di una delle poche multinazionali italiane (non si sa per quanto tempo ancora…) sarà decisa da un socio che controlla il 60% di una holding che a sua volta possiede il 22% di Telecom Italia, poco meno della quota in mano ai fondi di investimento e di altre minoranze.

Certo, si potrebbe correre il “rischio” di far esprimere all’assemblea un altro board, indipendente, capace di stimolare e controllare l’azione del management in una direzione gradita agli azionisti ai quali interessa, in fin dei conti, solo la creazione di valore delle azioni (oggi scivolate ai minimi del settore europeo). O di supportare la sua azione per individuare e perseguire una strategia di crescita e di sviluppo che non necessariamente coincide con l’interesse di un solo azionista. Privato o pubblico che sia. Ma Beltratti ci rassicura: Assogestioni ha in mano armi sufficienti per non prendere decisioni che possano ledere l’interesse di Mediobanca, Generali o Intesa. Con buona pace dei sottoscrittori dei fondi di Generali (349 miliardi di assets amministrati), Intesa San Paolo (239,2 miliardi) e Unicredit (100,7 miliardi), l’azionista numero uno di Mediobanca, il cui ad Federico Ghizzoni si dice fiducioso che Assogestioni non farà “scherzetti”.



Tanta fiducia è motivata dai precedenti. Un anno fa, quando si trattò di scegliere la lista di Assogestioni per il cda e il collegio sindacale da proporre per i vertici di Intesa, la banca (allora presieduta da Beltratti) sollevò il veto nei confronti di un professionista “sgradito”, Vincenzo Coviello. L’associazione rilevò che il candidato rispondeva ai criteri di indipendenza e di onorabilità previsti, ma Eurizon (società del gruppo, oggi presieduta da Beltratti che ha ceduto il posto in banca a Gian Maria Gros-Pietro) riuscì a far saltare la nomina. Una decisione da cui si dissociarono i gestori internazionali, rappresentati da International Shareholders Service e da Glenn Lewis, che per protesta disertarono il voto.

Insomma, non solo Telecom. Non è certo per caso che Mario Draghi, appena insediato in Banca d’Italia, dedicò il suo primo intervento pubblico alla necessità che le sgr, in buona parte controllate dal sistema bancario, diventassero indipendenti. Da allora Draghi è tornato sul tema più volte, con sempre maggiore decisione. Ma le banche hanno fatto muro. Un po’ per la difficoltà di trovare compratori, molto per la ritrosia a perdere il controllo di una leva importante per la regia del sistema. Oggi, dopo la scelta un po’ per necessità, un po’ per scelta di accelerare la fine dei patti di sindacato, la questione torna di estrema attualità.

La sensazione che, contro le proprie finalità dichiarate, tante, troppe decisioni dei gestori siano “eteroguidate” da interessi di gruppo di sistema è forte. Quasi che i fondi (basti citare il precedente di Parmalat) altro non siano in caso di necessità un braccio armato del sistema bancario o poco meno. Eppure, in giro per l’Europa e negli Usa il mondo dell’asset management ha ormai divorziato dalle proprietà bancarie di un tempo e rappresenta una forza autonoma, capace di recitare un ruolo a tutto campo.

Ormai da una decina d’anni, per fare un esempio, l’asset management di Allianz (che ha, tra l’altro, la maggioranza del colosso del mercato monetario, l’americana Pimco) ha abbandonato la missione di far da cane da guardia per il controllo di Continental o Bosch per abbracciare la missione di fare utili, operando nella finanza globale a caccia di occasioni che si traducano in guadagni per i clienti (che così reinvestono i propri risparmi).

È la strategia che, con qualche fatica, Mario Greco sta adottando per le Generali o Alberto Nagel per Mediobanca. Strategie che, però, spesso vanno a cozzare, come nel caso di Telecom, con le scelte del passato. Ma l’interesse immediato non deve frenare un divorzio di sistema che è ormai urgente: la Banca d’Italia, nell’anno degli stress test e dei necessari apporti di capitale alle banche, deve imporre un colpo d’acceleratore a un divorzio che i signori del credito hanno ritardato colpevolmente di almeno un lustro. Salvo poi piangere che in Italia mancano gli investitori istituzionali.