“Le privatizzazioni attuate dal governo Letta producono entrate di bilancio senza perdere il controllo di aziende strategiche che è fondamentale che rimangano italiane. Il governo non è caduto quindi negli stessi errori di chi ha privatizzato negli ultimi 15 anni”. Ad affermarlo è Paolo Cirino Pomicino, ex ministro della Funzione Pubblica e del Bilancio sotto i governi De Mita e Andreotti. La mossa del premier Letta ha suscitato voci dissonanti. Per alcuni cede quote di aziende fondamentali come Eni senza risolvere i problemi di bilancio, per altri va nella giusta direzione di un’economia di mercato.
Pomicino, lei come valuta questa decisione del governo Letta?
Il processo di privatizzazioni messo in piedi da Letta ha una qualità del tutto diversa da quello attuato nell’ultimo quindicennio. Non cede né le aziende né il loro controllo, bensì quote azionarie che possono produrre utili. Ciò avviene senza perdere il controllo della cosiddetta italianità che non è un capriccio autarchico, bensì l’esigenza di mantenere nelle mani del capitalismo italiano e del settore pubblico alcuni asset importanti che peraltro danno dividendi.
A che cosa si riferisce quando parla degli errori commessi negli ultimi 15 anni?
Nel decennio scorso le privatizzazioni hanno determinato l’uscita del Paese da tutti i settori a tecnologia avanzata. Ne sono un esempio la farmaceutica, le telecomunicazioni, l’avionica, la chimica. La scelta di Letta al contrario è saggia. Nel caso dell’Eni costringe i vertici dell’azienda a fare un buy-back, cioè a comprare altre azioni, e poi a metterle sul mercato ottenendo un introito straordinario dalla vendita. Mi sembra una scelta diversa dal passato, ed è un modo intelligente per difendersi dalla colonizzazione avvenuta negli anni ’90 e a cavallo dei primi anni del terzo millennio.
Questa cessione del 3% prelude a vendite di quote più imponenti?
Ritengo un po’ ridicolo che chi oggi critica la vendita del 3% sia stato zitto quando si è venduto il 70%. L’Eni è strategica non solo sul piano dell’approvvigionamento energetico e finanziario, ma anche della politica estera in cui il cane a sei zampe era uno strumento di non poco conto.
Bastano 12 miliardi per ridurre il debito pubblico?
No, 12 miliardi si limitano a liberare una parte della spesa d’interessi peraltro molto modesta. Occorrerebbe vendere anche le aziende municipalizzate, le quali non sono strategiche per il Paese. Seguendo la logica del governo, possono essere tranquillamente collocate sul mercato o addirittura vendute. La gestione dei servizi può rientrare nell’ambito della vocazione dell’imprenditoria italiana per le piccole e medie imprese. Mentre il nostro Paese ha scarsa vocazione per le grandi imprese con la capacità di fare investimenti significativi. Il titolo V della Costituzione prevede che la potestà sugli enti locali sia delle Regioni.
Letta per venderle può passare sopra la testa dei governatori?
Non c’è nessun bisogno di passare sopra le teste delle Regioni, deve essere attuata un’offensiva di persuasione. Sbaglio o la maggior parte delle Regioni sono in mano a Pd e Pdl? I due principali partiti al governo hanno quindi il potere di vendere parte delle aziende locali, o addirittura aziende statali come Poste Italiane. Per farlo basta che i vertici dei partiti ordinino ai rispettivi consiglieri regionali di attivarsi su questo fronte.
Lei ritiene che sia così semplice?
Bisogna incominciare a recuperare il valore del partito che è scomparso. Non è possibile immaginare che ogni presidente di regione o ogni sindaco sia un partito a sé. Se Pd e Pdl sono partiti come Dio comanda devono seguire le stesse linee politiche che si scelgono a livello nazionale.
(Pietro Vernizzi)