Un vecchio proverbio veneto dice che la toppa è peggio del buco. Bene, fa decisamente al caso nostro. Ieri vi ho parlato del rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità, dal quale si evinceva che in Grecia oltre la metà dei nuovi casi di Hiv erano autoindotti, ovvero le gente prendeva volutamente il virus per vedersi garantiti i 700 euro di benefit del sistema sanitario. Quel rapporto è stato pubblicato a fine settembre, ma soltanto l’altro giorno un famosissimo sito di contro-informazione ha scovato questa notizia, rilanciandola con grande clamore. E cosa ha fatto l’Organizzazione mondiale per la sanità? Dopo sette ore dalla pubblicazione della notizia ha avuto l’ardire di diramare un comunicato stampa nel quale, dopo aver confermato tutte le altre cifre allarmanti riguardo la società e la sanità in Grecia (aumento dei suicidi, delle rapine e dei furti, taglio del budget alle strutture sanitarie, migliaia di nuovi licenziamenti nel settore), rendeva noto che «il dato riguarda le persone che si iniettano droghe e l’Organizzazione mondiale della sanità non ha prove che questo atto sia una deliberata auto-inflizione, se non per alcuni aneddoti. Quella frase è la conseguenza di un errore di editing del report, per il quale l’Organizzazione mondiale della sanità si scusa».



Errore di editing? Cioè, uno stipendificio mega-galattico come l’Oms può permettersi un errore simile e non accorgersene nemmeno dopo la pubblicazione del report? Se un giornalista non si fosse preso la briga di leggere tutte le oltre 230 pagine del report, nulla sarebbe accaduto? E poi, ci sono volute sette ore per elaborare un comunicato di smentita simile, ovvero ammettendo che all’Oms si prendono per buoni anche gli aneddoti che si sentono in giro e che non si controllano le fonti? Io temo che il clamore suscitato dalla scoperta abbia portato l’Oms a decidere per il male minore, ovvero fare la figura degli incompetenti piuttosto che ammettere una verità troppo scomoda. Comunque sia, c’è da mettersi le mani nei capelli. Ma tranquilli, la Grecia non finisce di regalarci fotografie di una crisi infinita, anche senza le gaffes dell’Oms.



Guardate il primo grafico a fondo pagina: martedì, in un giorno sostanzialmente senza scossoni nelle Borse europee, l’indice principale di Atene ha perso il 4%, il peggior calo da 5 mesi a questa parte. Cosa significa? Che essendo il mercato greco relativamente illiquido, un grosso hedge fund ha deciso di aver fatto sufficiente denaro e che era ora di andarsene prima di ritrovarsi con il cerino in mano. D’altronde, come stupirsi: l’assalto alle banche greche attraverso l’acquisto di titoli e di warrants va avanti da un po’ ormai e il fatto che il governo ora stia discutendo di imporre obblighi temporali di detenzione per chi acquista azioni di istituti bancari nazionalizzati è un ottimo motivo per andarsene, se visto con l’ottica di un fondo speculativo. In compenso, lo spread è salito di 90 punti base in tre settimane, facendo scendere il valore di quei titoli al livello più basso da sei settimane a questa parte. Ma tranquilli, dai, la ripresa è a portata di mano.



Guardate il secondo grafico. È il dato di ottobre relativo al “margin debt”, reso noto ufficialmente ieri dalla Borsa di New York, la Nyse. Vi ripeto, per l’ennesima volta, cosa sia il “margin debt”, perché è un concetto fondamentale. Si tratta della somma della quantità di denaro che le istituzioni finanziarie hanno prestato per acquistare titoli azionari alla Borsa di New York, avendo come garanzia i titoli azionari stessi.

Per farvi capire il funzionamento, questo è l’esempio. Ho 5000 dollari sul mio conto titoli con la banca XY per comprare azioni YZ ma il mio istituto, vista l’esuberanza dei mercati garantita dal QE eterno della Fed, mi garantisce la possibilità di comprare altri 5000 dollari di titoli sul Nyse prestandomeli e tenendosi a garanzia i titoli YZ che ho appena comprato. Colgo l’occasione e compro altri 5000 dollari di titoli YZ, quindi sul mio conto titoli avrò 10000 dollari in titoli YZ e un debito con la mia banca XY di 5000 dollari – su cui ovviamente pago gli interessi – per una valorizzazione netta del mio conto di 5000 dollari. Un azzardo, visto che si scommette su un debito, ma finché gli indici azionari newyorchesi sfondano un record dopo l’altro chi ha voglia di preoccuparsi del domani? Si pensa a fare soldi, il più possibile e velocemente.

Ma la banca XY nel mio contratto di prestito titoli ha messo una clausola, in base alla quale ha il diritto di vendere la mia posizione azionaria se la valorizzazione netta del mio conto scende sotto una certa soglia. E non pensiate che serva un’ecatombe perché scatti la margin call e la liquidazione dei titoli: dipende da quanto margine ho e quanto cala il titolo che detengo in portafoglio. Siccome il margin debt è un indicatore molto importante del cosiddetto “moral hazard” e dell’esposizione del mercato alla leva, a metà di ogni mese la Borsa di New York pubblica i dati relativi al totale costituito sulle azioni quotate al Nyse, ovvero quanto denaro è stato dato in prestito da tutte le istituzioni finanziarie per acquistare titoli alla Borsa newyorchese, avendo messo come garanzia altri titoli azionari.

Dato complementare che viene reso noto è quello del grado di capitale libero da margini in miliardi di dollari, ovvero il denaro non soggetto a prestito da parte di istituzioni finanziarie e che viene utilizzato per operare al Nyse. Il record di “margin debt” fu toccato nel luglio del 2007, quando si registrò la cifra record di 381 miliardi di dollari: subito dopo, la crisi finanziaria globale ebbe inizio. Stessa cosa accadde nel 1999-2000. Dopo i minimi di mercato del 2009, il margin debt risalì fino alla contrazione della tarda primavera del 2010, protrattasi per tutta l’estate e conclusasi soltanto grazie all’annuncio di fine agosto giunto da Jackson Hole, quando Ben Bernanke attivò in grande stile la stamperia di Stato. Da allora, l’appetito per il margin debt ha ritrovato vigore.

Nello scorso mese di marzo il margin debt era a quota 379 miliardi, in aprile ha sfondato ogni record salendo a 384 miliardi, poi è cominciato a scendere, guarda caso in concomitanza con le prime frizioni all’interno della Fed e con la possibilità del cosiddetto “taper” che diventava sempre più reale, almeno a parole. In maggio 377 miliardi di dollari, in giugno 376,6 miliardi. Poi, in luglio ha comiciato a risalire a quota 382 miliardi, esattamente come in agosto, invariata nell’attesa del “taper sì, taper no”. Il dato di settembre polverizzò ogni record: 401 miliardi di dollari, 20 miliardi più del precedente record pre-crisi.

E ora? A che punto siamo? Siamo quasi a quota 415 miliardi di dollari, non si è mai visto – prendendo in esame il Nyse Composite – un mercato così tanto soggetto alla leva dal febbraio 2000, picco assoluto. Ma a spaventare ancora di più sono tre dati. Primo, il crollo al minimo del denaro investito libero da vincoli, ovvero non preso in prestito da istituzioni finanziarie: come dire, se devo investire di mio non ci penso nemmeno a mettere un dollaro in questo casinò, ma se sono soldi della banche, stracariche di liquidità della Fed, allora sì. Tanto il sistema è “too big to fail”, in qualche modo si farà, qualcuno ci penserà. Secondo, una situazione simile nel 2007 portò Deutsche Bank a pubblicare un report da “allerta rossa”, poi confermato dai fatti, riguardo i rischi sistemici di un mercato così esposto alla leva.

Il terzo motivo? Ve lo dico dopo, per ora posso affermare senza timori di essere smentito che siamo seduti su una bomba a orologeria creata dalla Fed, dalle sue politiche e dall’eccesso di liquidità. Il margin debt, infatti, ha sì un effetto moltiplicatore nel far salire le quotazioni dei titoli ma funziona anche da dinamo quando e se dovesse scattare una margin call che faccia sparire quel denaro prestato per acquistare titoli su titoli. Se infatti per coprire la posizione si è costretti a vendere azioni in un mercato che cala, non si fa altro che accelerare la velocità e ampliare il volume del calo, tramutandolo magari in un crollo. Ora la domanda da porsi, un’altra volta a un mese di distanza, è: ottobre ha rappresentato un picco, dopo quello di settembre? Non è domanda da poco perché nel 2000 il picco del “margin debt” anticipò di sei mesi la correzione dello S&P 500, mentre nel 2007 di quattro mesi. In un caso avremmo ancora quattro mesi di tempo, nell’altro due. E ancora, se correzione sarà, visto il picco di margin debt e l’eccesso di liquidità ai massimi storici, dobbiamo aspettarci qualcosa più del -19,39% registrato tra il 29 aprile e 3 ottobre del 2011?

Ed ecco il terzo motivo per cui essere preoccupati: il “margin debt” così alto, in picchi simili, si è registrato solo due volte, nel 2000 e nel 2007. E non è mai riuscito a sostenere quel livello per più di due mesi. Attenzione, comincia a ticchettare il timer.