Due eventi nei giorni scorsi hanno fatto chiarezza nella situazione politica italiana. Lo ha detto lo stesso Enrico Letta, ma le cose non stanno esattamente come intende il presidente del Consiglio. Il primo è un fatto esterno: l’accordo per il governo raggiunto in Germania. Il secondo è interno: l’espulsione di Silvio Berlusconi dal Senato e l’uscita di Forza Italia dalla maggioranza. Larghe intese a Berlino, piccole intese a Roma.
Partiamo dalla politica tedesca non per sembrare originali, né per ossessione teutonica, ma perché quel che avviene tra il Reno e l’Elba è determinante. Ebbene, lo scambio faticosamente stipulato da Angela Merkel con i socialdemocratici si basa su due pilastri: no a mettere in comune i debiti pubblici in Europa, sì al salario minimo in Germania. C’è ancora un’incognita: la consultazione tra gli iscritti entro il 14 dicembre; ma la Spd ha venduto la primogenitura europeista per una manciata di euro, mollando la proposta con la quale si era presentata agli elettori, cioè la creazione di un fondo di riscatto del debito nel quale far confluire la quota superiore al 60% del Pil.
Naturalmente sa che la sua base preferisce i soldi contanti (anche se fra tre anni), perché l’idea di pagare per italiani, greci e spagnoli non piace né ai sindacati, né all’opinione pubblica di sinistra (escluse poche anime belle come Joschka Fischer). Ma le conseguenze di questa scelta vincolante non saranno poche. Vedremo intanto se uscirà la pluriannunciata sentenza di Karlsruhe sulla costituzionalità degli acquisti di titoli pubblici per salvare i governi. L’Alta corte è indipendente, ma non avventurista, quindi ha atteso che la situazione politica si chiarisse; però ormai ci siamo.
Una cosa è certa: diventa più difficile la navigazione futura del Letta bis (dobbiamo chiamarlo così non solo perché escono i sottosegretari di Forza Italia e restano i ministri del Nuovo centro destra, ma perché ha una maggioranza diversa). Il presidente del Consiglio ha detto che il governo sarà più forte anche in Europa perché perde la componente euro-scettica. Ma non è così. I suoi margini di manovra sono ristretti, Bruxelles sa che le basi di una Kleine Koalition sono precarie, Mario Draghi tace. Non pochi hanno notato il silenzio del presidente della Bce a proposito del “cammino di risanamento dell’Italia” che aveva più volte citato in passato.
Letta ha alcuni punti a suo favore, sia chiaro. Il primo è che difficilmente si andrà a votare prima della primavera 2015. In fondo, lo ha detto lo stesso Berlusconi ai suoi seguaci: “Tornerò a palazzo Chigi nel 2015”, scoprendo più o meno consapevolmente le carte. Il secondo punto è l’asse con Giorgio Napolitano, regista dell’intera fase politica cominciata nel novembre 2011. Con una metafora calcistica, si può affermare che il presidente della Repubblica è il Pirlo della situazione, ma il presidente del Consiglio è il Balotelli. Il primo gli ha lanciato numerosi assist, sta al secondo segnare.
“Adesso faremo le riforme”, ha annunciato ieri Letta. Bene, ma quali? Tempo, denari e numeri sono risorse scarse. E la maggioranza parlamentare non garantisce che ci sia una maggioranza nel Paese. Angelino Alfano promette un nuovo patto di programma dopo l’8 dicembre. Allora, però, Matteo Renzi avrà in mano il Pd e allo stato attuale non si capisce se vuole forzare i tempi e capitalizzare la “rottamazione”, oppure se ubbidirà a Napolitano sostenendo Letta. Forza Italia si è lanciata in una lunga campagna elettorale; in attesa di vedere se avrà fiato per un anno e passa, è certo che farà un bel po’ di rumore fuori e dentro il Parlamento, pronta a cercare alleanze “innaturali” pur di mettere in difficoltà il governo.
Enrico il temporeggiatore dovrà, dunque, cambiare tattica e puntare su poche riforme ben mirate. La prima è quella elettorale. È l’unica operazione politico-istituzionale che possa fare; per la giustizia non ci sono le condizioni in Parlamento (e anche quando Berlusconi aveva una maggioranza schiacciante non ha fatto nulla, la lobby dei magistrati è troppo potente). Incombe del resto la sentenza della Corte costituzionale: se boccia il “porcellum”, si tratta di correre subito ai ripari, ma in ogni caso è chairo che il sistema attuale non può più reggere.
Le altre riforme riguardano l’economia. Napolitano ha condizionato l’esistenza stessa del governo Letta al cambiamento della legge con la quale si vota. L’Unione europea lo ha vincolato al taglio della spesa pubblica, al rilancio dell’economia e al cambiamento del mercato del lavoro. Esiste un consenso su questi quattro pilastri della sopravvivenza? Francamente, allo stato attuale non si sa. Ma sta a Letta esercitare la sua leadership fino in fondo e con una forza maggiore rispetto a quella mostrata finora.
Una volta chiarito che dall’Europa non c’è da attendersi nessuna svolta e solo pochi aiuti, bisogna contare sulle proprie forze, capitalizzare questo straccio di ripresa per rafforzare le aziende esportatrici (ci sono molti mezzi a costo pubblico minimo se non zero), rivedere il carico fiscale con quella operazione di riequilibrio a favore del lavoro finora mancata, dare più forza a una spending review che nasce di nuovo all’insegna dei comitati di studio anziché delle forbici. Il tutto va accompagnato da una profonda ristrutturazione del settore dei servizi, vera palla al piede del Paese, che passa inevitabilmente attraverso un cambiamento profondo degli ammortizzatori sociali (non si può estendere ancora la cassa integrazione in deroga) e delle norme contrattuali. Non si attirano capitali, ma non si portano nemmeno turisti senza sciogliere il nodo gordiano.
Il governo è più spostato a sinistra, però se sarà ostaggio dei ricatti corporativi, a cominciare da quelli sindacali, è destinato a fallire. Al contrario, può realizzare quel che la destra non è in grado di fare senza scatenare la rivolta sociale, seguendo autorevoli esempi come Tony Blair in Inghilterra, Göran Persson in Svezia, Gerhard Schröder in Germania, tutti uomini di sinistra che hanno riformato con il consenso. Il costo pagato personalmente è nettamente inferiore al beneficio per i loro paesi.
Letta lo sa e a parole si ispira a leader che ha apprezzato e sostenuto quando non aveva in mano il bastone del comando. Sottolinea, però, che loro hanno goduto di stabilità politica (Blair e Persson addirittura due mandati), senza la quale non si può governare. Ha ragione. Lui ha poco più di un anno e proprio per questo deve accelerare la riforma elettorale, creando così le basi per una prossima legislatura stabile e fissando la rotta anche per la maggioranza ventura. L’accordo possibile tra forze politiche tutte abbastanza piccole da voler tutelare se stesse non potrà essere ottimale. Ma il meglio, in questo caso più che mai, è contrario del buono. Si può salvare un certo grado di proporzionalità e nello stesso tempo garantire maggioranze solide e governabilità.
Questo resta un governo di transizione, tutti lo sanno e guardano infatti alla fine del passaggio; è un ponte tibetano, ma non può essere un ponte verso il nulla.