C’è un profumo da primo lustro degli anni Ottanta nel più recente rapporto semestrale del Tesoro Usa sull’economia internazionale (di cui dubito che la versione integrale sia stata letta da numerosi, e frettolosi, commentatori economici italiani). Tale profumo sta nelle richieste (peraltro molto sfumate) che la Germania dia maggiore attenzione alla spesa per consumi e investimenti interni al fine di frenare un surplus dei conti con l’estero che sfiora il 7% del Pil (a titolo indicativo, quello della Cina è il 2% del Pil, quello dell’Italia lo 0,9% e quello degli Usa il -2,5%). Nel primo lustro degli anni Ottanta, critiche analoghe venivano rivolte, oltre che alla Germania, al Giappone, nazioni accusate di non svolgere il loro ruolo di “grande potenze” nel trainare l’economia mondiale.
Il 22 settembre 1985 si arrivò a un accordo chiamato il “Plaza Agreeement” – poiché concluso segretamente in una suite dell’Albergo Plaza di New York – tra cinque contraenti: Usa, Francia, Germania, Gran Bretagna, Giappone (l’Italia lo apprese dai giornali). In base all’accordo Washington si impegnava a intervenire nel mercato dei cambi per deprezzare il dollaro rispetto al marco e allo yen, mentre Germania e Giappone accettavano di adottare politiche espansioniste interne. Sappiamo ciò che avvenne: l’apprezzamento dello yen rispetto al dollaro fu una determinante della lunga recessione da cui l’Impero nipponico sta tentando di uscire adesso con l’Abenomics, mentre sullo scacchiere europeo l’unificazione tedesca portò a un forte aumento della spesa pubblica in Germania e a un’unione monetaria a tempi più accelerati di quanto desiderabile per giungere a un’intesa in linea con la teoria economica e con la situazione delle economie reali dell’Unione europea.
Claudio Borghi Aquilini su queste pagine ha correttamente argomentato che le critiche dell’Amministrazione Obama sono rivolte essenzialmente a un uditorio “interno” degli Stati Uniti: dare uno zuccherino agli esportatori americani che si sentono penalizzati da un tasso di cambio che, a loro avviso, agevola i tedeschi a conquistare quote di mercato dell’export mondiale. A questo argomento occorre aggiungere non solo che il testo del documento è molto più articolato di quanto non si colga nei resoconti apparsi sulla stampa italiana, e sullo stesso Financial Times, ma che il rapporto semestrale del Tesoro Usa, non tiene conto di quanto sta avvenendo a Berlino.
Le trattative per la “grande coalizione” sono lunghe perché se ne vuole uscire non con “intese” di principio (con contenuti poco o mal definiti), ma con schemi puntuali di articolati dei principali provvedimenti. Al tavolo della trattativa i socialdemocratici non solo hanno posto una ridefinizione degli impegni per l’eurozona (i contractual arrangements di cui si è cominciato a discutere al Consiglio europeo di fine ottobre), ma anche tre misure che farebbero aumentare notevolmente la spesa (pubblica e privata): a) un salario minimo “all’americana” o “alla francese”; b) un incremento della spesa per pensioni e per assistenza all’infanzia; c) un vasto programma per migliorare infrastrutture, istruzione e approvvigionamento energetico. Ciò vuol dire una virata di bordo verso l’interno dopo lustri di attenzione alla competitività internazionale.
Il punto centrale del negoziato sta nel come conciliare queste richieste con gli equilibri di finanza pubblica di cui Berlino vuole continuare a essere l’esempio per il resto d’Europa. I contractual arrangements hanno, in gran misura, questo scopo: i partner deboli (principalmente l’Europa del Sud) devono impegnarsi con scadenze precise a migliorare la propria competitività tenendo ben dritta la barra dei conti. Senza aspettarsi aiuti dalla Germania. Lo analizzano con grande rigore Luigi Bonatti dell’Università di Bergamo e Andrea Fracasso dell’Università di Trento nel saggio The German Model and the European Crisis uscito nell’ultimo numero del Journal of Common Market Studies, diverse settimane prima del rapporto del Tesoro americano.
Jürgen Falter dell’Università di Mainz, molto ascoltato dalla Spd, dice con grande franchezza: “Ci sono doveri di supporto differenti tra quelli nei confronti dei componenti della famiglia (la Germania) e quelli relativi ai parenti lontani (altri membri dell’Eurozona), specialmente di quelli scavezzacolli”. Difficile dargli torto, anche in quanto Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi, compiendo un errore tecnico molto grave, portarono, nel novembre 1989, a una sopravvalutazione della “parità centrale” della lira nei confronti del marco che ci trasciniamo ancora e peggiora di anno in anno.
In effetti – lo ha ribadito un’analisi recente del CESifo di Monaco – una Germania “espansionista” può contribuire a trainare quei paesi dell’Europa meridionale che riescano a effettuare riforme strutturali quali quelle analizzate da Bonatti e Fracasso, ma resta sempre, nel manico, il nodo dei tassi di cambio reali: sottoprezzato quello tedesco e sovraprezzati quelli di altri.