La Bce, a sorpresa, taglia i tassi di un quarto di punto ai minimi di sempre. Le Borse europee, sempre a sorpresa, dopo l’euforia iniziale precipitano in basso. Delle due l’una: o il mondo procede senza bussola oppure c’è del metodo dietro l’apparente follia. Innanzitutto, la notizia. La Banca centrale europea ha deciso di tagliare, a sorpresa, il tasso di rifinanziamento dell’Eurozona al nuovo minimo storico dello 0,25% “a causa dell’andamento dell’inflazione, scesa più del previsto in ottobre”. Draghi ha ribadito che la politica monetaria resterà accomodante anche in futuro e che la Bce è pronta a valutare tutti gli strumenti a disposizione. È stata prorogata, inoltre, la procedura a tasso fisso e con volume illimitato per le aste di rifinanziamento della Bce fino a inizio luglio 2015.
Una decisione forte, su cui a Francoforte si sono dichiarati tutti d’accordo, almeno nei contenuti. Anche se una parte dei 17 votanti avrebbe preferito attendere ancora un mese. Una decisione che, sul piano politico, dimostra che:
1) La Germania, intransigente a parole, è ormai assai più flessibile sul fronte delle decisioni concrete. Da Madrid a Parigi, ormai il vincolo del deficit al 3% sul Pil è più un obiettivo futuro che non un obbligo effettivo. Fa eccezione l’Italia, condizionata dalla mole formidabile del debito che continua a crescere nonostante massicce dosi di austerità: il dossier Italia non consente deroghe, insomma, almeno finché non si riuscirà a far ripartire la crescita. Per il resto, Berlino adotta ormai una doppia morale: da una parte ostenta rigidità di principi, dall’altra chiude un occhio e apre a una politica espansiva. È una tattica già ben presente nelle comunicazioni sulla prossima partita dell’Unione bancaria.
2) La situazione è nei fatti, assai più grave di quel che non si detto fino a poche settimane fa. La caduta dei prezzi nell’Eurozona è stata estremamente violenta nel corso dell’ultimo mese: la Grecia è finita in deflazione, il Portogallo quasi. La Spagna e l’Italia viaggiano sotto l’1%. Prezzi così compressi, in piccola parte per l’andamento delle importazioni energetiche, per lo più per la violenta contrazione dei consumi, sono una pesante ipoteca contro qualsiasi speranza di ripresa dell’economia. Ma il guasto più immediato è un altro. La deflazione è la malattia suprema dei debitori che non possono sperare che l’inflazione deprezzi il valore dei debiti. Ma i debitori supremi dell’eurozona sono gli Stati che, nelle attuali condizioni, rischiano di finire in una spirale senza fine. È stato calcolato da Natixiis che, agli attuali tassi di decrescita, l’Italia dovrebbe registrare un saldo positivo di sette punti sul fabbisogno statale solo per non far peggiorare l’attuale debito, pari al 133% circa (che non a caso peggiorerà pure l’anno prossimo). Per il Portogallo lo sforzo dovrebbe salire all’11,5% sul Pil, per la Grecia addirittura al 12,6%.
3) È ovvio che, in una situazione del genere la prima emergenza del pompiere Draghi consiste nell’innaffiare di liquidità i mercati con l’obiettivo di: aumentare il circolante, nella speranza che l’aumento della massa monetaria scongiuri la siccità sui mercati; frenare la marcia dell’euro per non esasperare i partner, Usa in testa; offrire al sistema del credito la garanzia di poter attingere ai finanziamenti necessari per ovviare alla stasi dei mercati, nella speranza che, nel frattempo, le tanto sospirate riforme offrano spazi per interventi espansivi di politica fiscale, secondo i canoni consentiti dalla Bundesbank.
4) Si tratta di misure efficaci? I dubbi sono giustificati dalle affermazioni dello stesso Draghi. “I fondamentali dell’eurozona sono i più forti del mondo – ha detto -. È l’area con il deficit pubblico più basso, anzi con un surplus primario dello 0,7%” . Vero. O meglio lo sarebbe se l’Eurozona fosse una comunità vera. Così, certi numeri valgono come i polli di Trilussa: che senso ha combinare i dati della Grecia alla canna del gas con il surplus di Amburgo? In realtà, un senso c’è: abbassare artificialmente il valore della moneta in Germania e fingere che i portuali del Pireo dispongano di una moneta forte garantita dal surplus di Bmw o Volkswagen. Insomma, il calo dei tassi interviene in situazioni economiche largamente diverse, spesso opposte. Senza uno spazio finanziario comune o almeno in via di convergenza, cosa che nell’eurozona non esiste più dallo scoppio della crisi che ha fatto scappare verso Nord i capitali già investiti nella “periferia” d’Europa, le mosse della banca centrale possono tener sotto controllo i tassi di cambio o garantire una “media” dell’inflazione (o almeno così è stato finora). Ma non hanno alcun potere di indirizzo sugli investimenti.
5) Si spiega così la reazione dei mercati, che rispondono ormai solo alla logica della liquidità, del tutto incurante dei sottostanti economici. Nei mesi corsi, sotto la pressione del braccio di ferro sul budget Usa, flussi di capitali imponenti hanno fatto rotta verso l’area euro per sfruttare le condizioni, relativamente più rigide della politica monetaria dell’Europa. Oggi, una volta preso atto del taglio dei tassi, questo capitali si spostano con la stessa velocità alla ricerca di nuove “occasioni”. Risalgono i tassi sui T-bond Usa, piace la Cina, dopo la rivalutazione dello yuan, Wall Street (come dimostra il boom dell’Ipo di Twitter) torna a essere la terra promessa. Per qualche mese, visto che tra non molto si prenderà atto che la Fed di Janet Yellen, il Giappone di Haruhiko Kuroda e la Bank of England di MaK Carney restano più aggressivi e determinati della Bce che non può usare l’arma del Quantitative easing.
6) Nell’attesa, prepariamoci a valutare un altro fenomeno sorprendente: l’uscita dei fondi monetari Usa dai Bonos spagnoli o dai Btp, giudicati per ora a fine corsa e relativo aumento dei tassi. Quel giorno, sui giornali, l’aumento dei tassi sarà imputato alla turbolenza politica o ai problemi della legge di stabilità. Ma la chiave andrà cercata altrove.