Lo “svuota Province”, meglio conosciuto come Decreto Delrio, dal nome del ministro degli Affari regionali, si accinge a “portare a casa il risultato”. Chiaramente le voci contrarie si sono levate immediatamente, perché gli interessi toccati non sono di poco conto. Oltre alle proteste dei politici e degli amministratori provinciali, nelle ultime settimane si è levata contro questa prospettiva la voce del mondo accademico tramite l’appello di quarantadue costituzionalisti. Secondo loro, nella riforma Delrio rimane un problema di fondo: la costituzionalità del taglio delle Province.
Effettivamente al fine di eliminarle è necessario una modifica della Carta. Quello di cui si sta parlando in questo momento è “svuotare” i poteri attuali delle Province e riassegnarli principalmente ai Comuni. Nel caso il personale delle Province venisse riassegnato alle Regioni, infatti, paradossalmente aumenterebbero i costi, in quanto i salari sono più alti di quelli riconosciuti ai funzionari comunali e provinciali. Quindi la riforma compie un primo passo importante, ma è necessario che il Parlamento vada in direzione decisa verso la modifica costituzionale, se davvero si vorrà arrivare all’obiettivo.
Dopo la riforma attuale le Province manterranno poche funzioni, mentre molte potrebbero essere riassegnate ai Comuni e alla Città metropolitane. Insieme al taglio delle Province è necessario ridisegnare quelle amministrazioni che furono pensate secondo la stessa logica delle Province. Per esempio, le Prefetture andrebbero riaccorpate, come previsto anche dalla riforma Monti, poi bocciata dalla Consulta, e come chiesto dal Rapporto Giarda. Con un taglio delle Prefetture e la riorganizzazione territoriale, i risparmi aggiuntivi all’eliminazione del livello provinciale potrebbero addirittura raddoppiare, ma vi è un serio rischio che pochi sottolineano nel passaggio dalle Province alle Città metropolitane.
Esse sono infatti istituite sia dal Parlamento italiano che dalle Regioni a Statuto speciale e il metodo di scelta è molte volte legato a criteri politici e non certo di efficienza. Con la legge delega 42 del 2009 si è aggiunta alle nove città metropolitane anche Reggio Calabria. Il criterio di scelta tuttavia non fu certamente legato né alla grandezza del territorio provinciale, né al numero degli abitanti, né al numero di Comuni presenti (i tre criteri utilizzati per “salvare” le Province dagli accorpamenti). Se infatti si va a vedere il numero di abitanti nella Provincia di Reggio Calabria si scopre che si trova al solo trentunesimo posto con poco più di 566 mila abitanti. Cuneo, ad esempio, è più grande con oltre 592 mila cittadini. È allora il criterio dell’ampiezza del territorio ad aver fatto diventare Reggio Calabria una grande città? Non sembra visto che il territorio reggino è il 46% di quello cuneese. Il numero di comuni, infine, è inferiore ad esempio a quello della Provincia di Como e dunque anche per la scelta delle Città metropolitane non si è usato il criterio dimensionale o efficientistico.
Quante sono le Città metropolitane? Il Parlamento ne ha individuate dieci: oltre a Reggio Calabria, vi sono Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Torino, Roma e Venezia. Vi sono poi quelle individuate dalle Regioni a Statuto Speciale: Cagliari, Catania, Messina, Palermo, Trieste. Ancora una volta, anche per la scelta delle regioni a Statuto speciale, si evidenzia come la Sicilia abbia scelto di avere il 20% della totalità delle città metropolitane. Catania e Palermo sono effettivamente due grandi città, anche se vi è il dubbio che vi ci possa essere più di una città metropolitana per Regione. Infatti, la Lombardia avrebbe tutto il diritto di fare diventare Città metropolitana Brescia, che come provincia conta più abitanti di Palermo o Catania. Ma il caso più eclatante è la Provincia di Messina, che è diventata Città metropolitana, nonostante abbia meno abitanti e un’estensione territoriale inferiore alla Provincia di Perugia.
Ancora una volta, “fatto il Decreto” si trova il modo di aggirarlo. Il problema irrisolto è quello che non esiste una visione complessiva e si agisce troppo spesso per singolo livello di Governo, senza riuscire mai a intaccare una struttura consolidata nel tempo e dagli interessi. Le Città metropolitane in sé potrebbero essere utili, ma non ai fini politici, ma per una responsabilizzazione della classe politica su un territorio più ampio rispetto al Comune.