A che punto siamo con la faccenda dei debiti sovrani? La Fed continua a comprare mensilmente circa 85 miliardi di dollari in titoli obbligazionari, ritardando cronicamente un taper del QE. In cinque anni i suoi acquisti di obbligazioni sono arrivati a più di 4 bilioni. Sorprendentemente, in una nazione apparentemente di libero mercato, il QE è diventato il più grande intervento nei mercati finanziari mai visto nella storia del mondo. Per tutta risposta, la ripresa economica Usa continua a ritmi compresi tra modesti e moderati, lo scrive la Federal Reserve nel Beige Book dello scorso 6 dicembre.
Fiuuuuuu! Anche dai calcoli più ottimisti della Fed, il QE in cinque anni ha prodotto negli Stati Uniti solo pochi punti percentuali di crescita. Esperti maligni, come Mohamed El Erian di Pimco, suggeriscono che la Fed possa aver creato e speso più di 4 bilioni di dollari per un ritorno totale dello 0,25% del Pil (cioè, solo un aumento di 40 miliardi nella produzione economica degli Stati Uniti). Entrambe queste stime indicano che il QE non sta affatto funzionando. Il debito nel frattempo ha raggiunto vette astronomiche.
In Europa, invece, dove si è scelta una strada affatto diversa per far fronte alla crisi, come va? Fiuuuuuu! Da questa parte dell’Atlantico ci si ritrova a fare i conti con il “consolidamento fiscale”, ovvero tentare di fare crescita riducendo il debito. Struggente l’iperbole. Diamo un’occhiata ai risultati della giurisdizione Italia. Lo Stato, con un debito di 2.085 miliardi e un costo di quel debito di 90 miliardi l’anno, per rimettere in sesto i conti deve tagliare. Taglia l’erogazione dei servizi, parte della spesa corrente; non sostituisce chi va in pensione, né rivaluta da 4 anni gli stipendi degli oltre 3 milioni di dipendenti ancora a libro paga.
Toh, la spesa pubblica che riduce la spesa, riduce pure il potere d’acquisto dei dipendenti; le imprese, con tale andazzo, fanno quel che possono: quando va male chiudono, quando va meno male non spendono per investire, riducono l’occupazione e pure i salari.
Una spending review tira l’altra, i dati mostrano lo sconforto. Hanno cessato l’attività più di 1,6 milioni di imprese tra il 2009 e oggi. Lo dice il rapporto annuale del Censis sulla situazione sociale del Paese. Sempre quelli dicono pure che, nel 2013, le spese delle famiglie sono tornate indietro di oltre dieci anni, con il 69% delle famiglie italiane che nell’ultima parte dell’anno hanno ridotto o peggiorato la loro capacità di spesa.
La deflazione salariale in atto non sembra in grado di risolvere i problemi, anzi li crea: meno spesa che smaltisce il prodotto, meno imprese a ri-produrlo. Si innesca una reazione a catena che va dalla riduzione salariale a quella dei prezzi che non svaluta il debito, anzi lo rivaluta: un giochino perverso insomma che non lascia scampo. Nella zona Euro, a conti fatti non va meglio: l’aumento di 24 punti nel rapporto debito/Pil rispetto ai livelli pre-crisi sta lì a dimostrarlo.
Cacchio: debito sì, debito no, debito ni; quelli di là, quelli di qua, quelli di sopra e di sotto, siamo ancora qui, in mezzo alla crisi. Bando alle ciance dei keynesiani, dei monetaristi, dei liberisti; che abitino a Chicago, Vienna o in ogni dove, occorre cambiare registro! Si scorge all’orizzonte una ragione economica tutta nuova, non v’è debito da fare, né da rimettere. Suona pressappoco così: “La crescita si fa con la spesa. Così viene generato reddito, quel reddito che serve a fare nuova spesa. Tocca allocare quelle risorse di reddito per remunerare chi, con la spesa, remunera”.
Si può provare!