Con un debito pubblico sempre più da record, arrivato a ottobre a quota 2.085,321 miliardi di euro, ben più alto del massimo storico di 2.076 miliardi già raggiunto nel giugno scorso, la ripresa di cui parla il ministro Saccomanni continua ad allontanarsi, fino a scomparire. In tanti ci sperano, in pochi la vedono e ne percepiscono gli effetti. A tutto ciò che è emerso dal supplemento Finanza Pubblica al bollettino statistico della Banca d’Italia si è poi aggiunto lo zampino di Standard & Poor’s che ha confermato il rating sovrano dell’Italia di lungo e breve termine a BBB/A-2, ma mantenendo l’outlook negativo. Questa conferma, ha spiegato S&P’s, “riflette la nostra valutazione di un’economia ricca e diversificata tra i rischi di una ripresa fragile nell’ambito di un contesto di alto debito pubblico”. L’ottimismo fa bene, protegge in situazioni di stress e in certe occasioni è assolutamente necessario, ma difficilmente questa può essere considerata una buona notizia. Secondo il Tesoro, invece, la conferma del rating smentisce i rumours di un downgrade circolati nelle ultime settimane: “Certo, la loro stima della crescita è inferiore alla nostra”, ha fatto sapere il ministero, ma si prende comunque atto che “viene apprezzata la direzione in cui vanno le misure prese dal governo, a partire dalla riduzione delle imposte su lavoro e imprese, e che l’attuazione delle politiche già intraprese dal governo escluderebbe ipotesi di downgrade”. Abbiamo fatto il punto della situazione con Ugo Arrigo, professore di Finanza pubblica all’Università di Milano Bicocca.
Iniziamo dal supplemento al Bollettino statistico di finanza pubblica appena diffuso dalla Banca d’Italia, da cui emerge un debito pubblico alle stelle. Cosa ne pensa?
Possiamo osservare innanzitutto che negli ultimi due anni il rapporto rispetto al Pil è cresciuto praticamente a velocità doppia rispetto agli anni precedenti. Guardando al debito pubblico netto, infatti, notiamo che nel 2012 e nel 2013 è aumentato di quattro punti, anche se per quanto riguarda l’anno in corso sarà necessario attendere i dati definitivi che usciranno solamente verso la fine di febbraio e l’inizio di marzo.
Come mai il rapporto debito/Pil cresce così velocemente, nonostante il deficit pubblico sia attualmente entro i limiti di Maastricht?
È semplicemente l’effetto della recessione. Abbiamo migliorato i disavanzi di bilancio del settore pubblico, passando dal 4,5% del 2010 al 3,8% del 2011, fino al 3% del 2012 e contando di rimanere sul 3% nel 2013, ma è anche vero che nei primi due anni di questi quattro abbiamo fatto registrare quel poco di crescita economica che ha permesso al Prodotto interno lordo, in termini nominali, di crescere.
Poi cosa è successo?
Poi c’è stata la maxi-manovra della seconda metà del 2011, una manovra mai vista prima e che ha addirittura superato quella di Giuliano Amato del 1992 da oltre 90 mila miliardi di lire. Quella di due anni fa è stata infatti di 80 miliardi di euro in tre anni, pari a cinque punti di Prodotto interno lordo. Partendo da un disavanzo che era sotto il 4% avremmo dovuto raggiungere come minimo il pareggio di bilancio, invece dal 3,8% siamo scesi solamente al 3%. Insomma, i cinque punti di partenza si sono tradotti in meno di un punto.
Tutto il resto dov’è finito?
Si è perso nella recessione, che però ha anche fatto cadere il Pil nominale. Il risultato è che, quando il disavanzo era al 4,5%, quindi nel 2010, il debito cresceva di due punti all’anno, mentre adesso, con tre punti di disavanzo e una crescita economica negativa, quei due punti diventano quattro. Francamente, il debito pubblico italiano mi sembra molto più insicuro adesso di quanto non fosse tre anni fa, prima di fare tutte queste manovre.
Qual è stata la maggiore miopia italiana ed europea sotto questo punto di vista?
Senza dubbio quella di guardare al problema della finanza pubblica come disavanzo, attraverso quindi una logica puramente di breve periodo che vale solamente quando non c’è recessione. Nell’attuale situazione, invece, è assolutamente necessario guardare sì al disavanzo, ma in congiunzione con la recessione. L’Italia ha di fatto deciso di sostituire un disavanzo leggermente alto con una recessione i cui effetti sono stati dirompenti sulle abitudini degli italiani, sui consumi e sui redditi, per cui sarebbe stato molto meglio tenersi quel piccolo deficit. Sarebbe stato meno pericoloso e avrebbe portato ad almeno mezzo punto all’anno di miglioramento.
Come giudica invece la conferma del rating italiano da parte di Standard & Poor’s?
Non ci sono ragioni per un peggioramento del rating italiano, ma purtroppo l’agenzia ha ragione quando decide di mantenere l’outlook negativo. Al momento non vedo infatti alcun segnale di un’uscita dalla recessione.
Eppure il Tesoro sembra quasi festeggiare…
In effetti questo non me lo spiego. Da un lato c’è un doveroso ottimismo che deve sempre prevalere per non rischiare di peggiorare la situazione, però è ovvio che la via d’uscita dal tunnel non è stata ancora presa, a differenza di quanto ci viene detto in questo periodo. D’altra parte, come si può pensare che gli italiani tornino a consumare con un’aliquota Iva aumentata dal 21% al 22%, che comunque non produce gettito aggiuntivo?
Quale può essere allora la soluzione?
Bisogna innanzitutto andare in Europa a spiegare che nel bilancio pubblico, tra le voci in entrata, non ci si devono mettere le aliquote ma il gettito. E che per avere più gettito bisogna avere più imponibili, ma per farlo bisogna ridurre decisamente le aliquote. Mi spiego meglio: al momento siamo come un’impresa che aumenta i prezzi dei suoi prodotti, per poi accorgersi che il fatturato è sceso. Questo accade perché ha di fronte a sé una domanda elastica e quindi, se i prezzi sono aumentati del 5%, la domanda cala di una percentuale maggiore. Lo stesso è accaduto al fisco italiano, che si è trovato davanti dei cittadini che hanno ridotto la spesa più che proporzionalmente, facendo diminuire il gettito. È ovvio che non è in questo modo che si esce dalla recessione.
(Claudio Perlini)