L’eurozona non esiste più, ammesso e non concesso che sia mai esistita. È una faglia che si allarga sempre di più, che rimanda boati e minaccia di aprirsi e trasformare il continente in due entità distinte. Senza bisogno di default o revisione dei Trattati: parlano e bastano le cifre. Il settore privato in Germania ha registrato a dicembre una decisa espansione, trainata dalla ripresa della manifattura più orientata all’export: l’indice flash composito Pmi a cura di Markit, che comprende settore servizi e manifatturiero, si è infatti attestato a 55,2, ancora una volta sopra la soglia di 50 che separa espansione da contrazione, come già nei sette mesi precedenti. Il dato finale di novembre era leggermente superiore a 55,4. Il settore manifatturiero, particolarmente debole all’inizio dell’anno, è salito a dicembre a 54,2 da 52,7 di novembre, sopra il consenso di 53, segnando il massimo da due anni e mezzo. Sono tornate a crescere le assunzioni per la prima volta dallo scorso marzo, mentre i nuovi ordini hanno toccato un picco da aprile 2011 grazie alla domanda dall’estero. In crescita anche il comparto servizi, benché meno del mese precedente e delle attese: si è attestato a 54 da 55,7 contro un consenso a 55,5. Per il quarto trimestre, l’economista di Markit, Chris Williamson, ritiene che l’indice Pmi possa preludere a un Pil in crescita dello 0,5%, «forse anche dello 0,6%», in miglioramento dal terzo trimestre. Una crescita che «dovrebbe continuare anche nel primo trimestre del prossimo anno».
Evviva! Peccato che diversamente da quella tedesca, la seconda economia della zona euro, quella francese, sta nuovamente scivolando in recessione nell’ultimo trimestre dell’anno. La stima flash dell’indice Pmi si è infatti confermata sotto la soglia dei 50 punti, aumentando il ritmo di caduta a 47, minimo da sette mesi, da 48 segnato a novembre. Per Chris Williamson si tratta di un dato compatibile con una contrazione del Pil pari allo 0,1% nell’ultimo trimestre dell’anno, dopo il calo di pari entità registrato nel terzo trimestre. Guardando ai singoli settori, infatti, l’indice relativo al manifatturiero è scivolato a 47,1 da 48,4, ben sotto le attese a 49,1. Inoltre, il Pmi servizi è sceso a 47,4 da 48 di novembre, sotto le stime a 49. Insomma, l’economia della Francia si è letteralmente schiantata. Per Andrew Harker, economista di Markit, «questi risultati dipingono un’immagine che fa paura dello stato di salute dell’economia francese». Insomma, due Europe. E non più area “core” contro area “periferica”, bensì Germania contro il resto del Continente. E almeno due dati di fatto mi fanno pensare che Berlino abbia capito che l’Ue così com’è non abbia più possibilità di resistere e cominci la sua ritirata strategica, in attesa di una deflagrazione che potrebbe arrivare prima del previsto e dalla quale vuole mettersi al riparo in condizioni economiche tali da poter reggere l’urto.
Anche perché, cari lettori, la tregua dello spread sta per finire. Guardate questo grafico di Citi FX: ci mostra come la detenzione estera di bond sovrani italiani e spagnoli sia crollata dall’inizio del 2011 e come siano le banche di quei due paesi, grazie ai soldi racimolati nelle due aste Ltro, ad acquistare il debito e mantenere – di fatto artificialmente – basso lo spread, per quanto i rappresentanti dell’Abi vadano in tv a negare l’evidenza.
Ora, con dinamiche differenti, ovvero con le banche che invece di agire da stampella dei governi stessero davvero attente ai bilanci e a erogare credito a cittadini e imprese, dove sarebbe il nostro spread? E quello spagnolo, visto che la ratio debito/Pil di Madrid ieri ha toccato il record da cento anni a questa parte al 93,4%? Quale sarebbe il vero costo del servizio del nostro debito pubblico senza gli acquisti delle banche? Le quali, ora, devono però fare i conti con la supervisione unica bancaria, gli stress test e la richiesta tedesca in seno alla Bce di mettere a bilancio cuscinetti di copertura per le loro detenzioni di debito, qualcosa come 351 miliardi di euro per quelle italiane: uno tsunami è alle porte, qualche istituto ci lascerà le penne e pagheranno correntisti e obbligazionisti.
Una notevole porzione dei prestiti della Bce alle banche europee è insomma stata utilizzata per comprare debito italiano e spagnolo con scadenza fine 2014 o inizio 2015, calcolando che gli istituti del Bel Paese e iberici hanno preso fondi dalla Bce per circa 300 miliardi di euro. Ora, però, arriva la supervisione bancaria e le banche sono destinate a finire sotto pressione per vendere gli assets più rischiosi e questo potrebbe innescare una spirale autoalimentante sullo spread: già oggi i timori si notano sul mercato interbancario, termometro di quanto le banche stiano diventando più caute nel prestarsi denaro, ovvero si dorme sul capitale e si tende a non farlo uscire se non a prezzi molto onerosi. Per Valentin Marinov, capo della strategia valutaria di Citi, «Spagna e Italia potrebbero dover fronteggiare crescenti pressioni sul finanziamento nella parte finale del 2014 se le banche non vorranno o non saranno in grado di dar vita a un roll sulle scadenze delle loro posizioni di debito sovrano».
E che il 2014 potrebbe essere l’anno del giudizio me lo fa pensare anche il secondo dato di fatto, ovvero il ritorno in Germania – per occupare il posto di vice-ministro del Lavoro nel nuovo governo di coalizione – di Joerg Asmussen, uomo di Berlino in seno alla Bce. Un segnale molto chiaro, visto che Asmussen è sempre stato l’uomo della mediazione tra la politica ultra-rigorista della Bundesbank e il Consiglio direttivo della Banca centrale europea. Insomma, il protagonista della politica del dialogo, il filtro tra il falco Jens Weidmann e Mario Draghi torna a casa e i mercati potrebbero leggere questa decisione come un potenziale aumento della tensione tra la prima economia dell’Ue, nonché azionista di maggioranza della Bce e il resto dell’Unione, soprattutto su temi come l’unione bancaria o il meccanismo Omt per l’acquisto di assets sul mercato secondario.
Le tre potenziali contendenti al suo posto sono tutte donne: la vice di Weidmann alla Bundesbank, Sabine Lautenschlaeger, il capo della Consob tedesca, Elke Koening e il capo dell’Halle Institute, Claudia Buch. Tre falchi, con Sabine Lautenschlaeger in pole position e decisamente poco incline al compromesso: se sarà lei – basti dire che suo grande sponsor è il potente ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble – la Bundesbank non metterà solo piede a palazzo, ma ci entrerà con le truppe corazzate, bloccando qualsiasi possibile misura espansiva e di stimolo. Per Bill Blain, economista alla Mint Partners, «una Germania che si allontani dalla leadership della Bce e che presti maggiore attenzione alle mosse della Bundesbank, per ragioni di politica interna determinate dalla natura della coalizione di governo, porterà inevitabilmente la Merkel a giocare un ruolo più scettico in ambito europeo».
Febbraio-marzo del prossimo anno potrebbero essere i mesi della grande correzione, l’avvio del processo di disgregazione europea sotto i colpi del mercato. E se la Germania si presenterà all’appuntamento armata fino ai denti, noi rischiamo di arrivarci in mutande e ciabatte se continueremo a ritenere fondamentale parlare di legge elettorale, rimborsi elettorali e altre idiozie simili. Se la casa brucia, non ci si mette a spolverare i mobili. Agite. Adesso.