L’evasione fiscale, in Italia, si colora di plurime e inaspettate sfumature. Gli statali, per esempio: a chi mai sarebbe potuto passare per le testa che la categoria, il cui stipendio è tassato alla fonte, potesse frodare il fisco. E invece, i dipendenti pubblici denunciati nei primi dieci mesi dell’anno sono ben 5.073, mentre i danni provocati da funzionari e impiegati infedeli fino allo scorso ottobre corrispondono a 2 miliardi e 22 milioni di euro, quelli per truffe a un miliardo e 358 milioni di euro. Altro fenomeno emerso in misura massiccia di recente è quello delle dichiarazioni mendaci in merito alla presentazione dell’Isee per ottenere delle borse di studio. Gli studenti che, in tutta Italia, hanno goduto di benefici e agevolazioni senza averne alcun diritto, e provenendo da famiglie benestanti se non addirittura ricche, sono circa un migliaio (con il caso limite del Lazio, dove il 63 per cento dei borsisti avrebbe raggirato l’università). Che sta succedendo? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre.

Cosa ne pensa di questi fenomeni?

L’evasione, in Italia, appare equamente distribuita. Persino tra gli studenti. E non riguarda, evidentemente, solo gli imprenditori. Non dobbiamo dimenticare, del resto, che spesso l’evasione conviene non tanto al prestatore dell’opera, quanto a chi la chiede.

Ci faccia un esempio.

Mettiamo il caso di un’officina auto che, tra tassazione al 55 per cento e studi di settore, per rientrare nei costi, non possa far spendere ad un suo cliente meno di mille euro per una riparazione (che, con l’Iva, diventano 1200). Evidentemente, sarà lo stesso cliente a chiedere uno sconto, offrendosi di pagare almeno parte dell’importo in nero. Resta il fatto, ovviamente, che il grosso dell’evasione o dell’elusione è imputabile alle grandi società. Per i “piccoli”, spesso, rappresenta forme di sopravvivenza.

Cosa intende?

Più del 50 cento delle piccole e medie imprese sono di proprietà di persone che hanno perso il precedente lavoro perché, magari, l’azienda e fallita e che, per non rimanere a piedi, provano a mettersi in proprio. Non si tratta, di certo, di persone con la vocazione imprenditoriale. Questi, a loro volta, rischiano spesso di dover chiudere bottega, di restare senza ammortizzatori sociali ma con un carico pesante di debiti. Una triste dinamica, alla luce della quale il fenomeno degli statali evasori fa infuriare ancora di più.

Ci spieghi.

Spesso, si tratta di persone che riescono a entrare grazie alle raccomandazioni dei partiti, o con concorsi fasulli. Si dà il caso, inoltre, che se 30 anni fa lo stipendio del dipendente pubblico era mediamente inferiore del 15-20 per cento rispetto a quello del dipendente privato, oggi la situazione si è più che ribaltata e prende mediamente il 30-40 per cento in più; ma con l’orario ridotto.

Torniamo all’evasione.

Evadere, in questi casi, rappresenta un’ingiustizia particolarmente odiosa, peggio che rubare. Insomma, evadere per sopravvivenza è tutto sommato comprensibile; e, in ogni caso, l’imprenditore si assume pur sempre il rischio di impresa. Nel caso dei dipendenti pubblici parliamo di persone ipergarantite, con il posto fisso, un ottimo stipendio, e il cui rischio è assorbito dall’amministrazione che li ha assunti.

 

Come se ne esce?

Sarebbe sufficiente, anzitutto, una riforma a costo zero: equipariamo gli orari di lavoro dei dipendenti pubblici a quelli privati. Questo, già di per sé, contribuirebbe a sanare un gigantesco problema rivelato dalla presidenza del Consiglio dei ministri, che ha calcolato come la burocrazia costi alle imprese 31 miliardi all’anno, 7mila euro a impresa.

 

Nel frattempo, l’Ocse, per contrastare l’evasione fiscale sta mettendo a punto il nuovo standard globale, una sorta di studio di settore mondiale.

Beh, potrebbe rivelarsi un indicatore molto utile per far comprendere al resto del mondo come il nostro Paese abbia una tassazione del tutto iniqua.

 

(Paolo Nessi)