Dunque, domenica Beppe Grillo, oltre ad avere chiesto l’impeachment di Giorgio Napolitano, ha avanzato i 7 punti della sua proposta per l’Europa, ovvero quelli che saranno – con ogni probabilità – gli argomenti forti della campagna elettorale del M5S per le elezioni europee del prossimo anno. Vediamoli insieme, anche perché gli argomenti di un partito che a tutt’oggi vanta nei sondaggi più del 20% dei consensi degli italiani non possono essere liquidati unicamente con accuse di populismo. Primo, referendum per la permanenza nell’euro. Non è possibile per legge: in Italia non sono previsti referendum su materie che riguardano l’Europa.



Detto questo, si può sempre cambiare la legge. Il problema è: a cosa andremo incontro nei mesi precedenti a questo appuntamento? Che tipo di comunicazione ci sarà verso i cittadini su un tema del genere? E poi, in caso la maggioranza degli italiani scegliesse di uscire dall’euro, l’Europa cosa direbbe? Non si può, di fatto, andarsene dell’eurozona così, manu militari. Ma siamo ottimisti e diamo per buono il fatto che l’Europa, al netto della volontà popolare italiana, dica sì e ci permetta di tornare alla lira, al tallero o comunque a una moneta sovrana: chi e come ridenominerà gli accordi commerciali delle nostre aziende, tutti in euro? Chi ridenominerà il valore di quel 30% di debito pubblico in mano a investitori esteri?



Sicuramente toccherà scontare un haircut, tanto più che già oggi – senza ipotesi di uscita dall’euro – esistono le clausole di azione collettiva nelle obbligazioni sovrane, le quali permettono ridiscussione di cedole e coupon, oltre che di scadenze. A vostro modo di vedere, nel momento stesso in cui venisse annunciato l’ok a un referendum simile, che fine farebbe quel debito? Verrebbe immediatamente scaricato dagli investitori spaventati per le perdite cui andrebbero incontro. Quindi, crollo del valore dei titoli sovrani – di cui le nostre banche sono piene per quasi 450 miliardi di euro – e spread alle stelle, ovvero costi molto maggiori per collocare il nostro debito e per il servizio dello stesso. Cosa farebbe a quel punto lo Stato, visto che, con la prospettiva di uscire dall’euro di lì a pochi mesi, difficilmente la Bce acquisterebbe sul secondario per calmare i rendimenti? Comprerebbe, un buy-back per arrivare a una traiettoria quasi giapponese di autarchia sul debito pubblico? E con quali soldi? Vendendo le riserve auree? Sarebbe una sorta di suicidio, ancorché io ritenga giusto che la gente possa dire la propria su un argomento di così vitale importanza per il suo futuro, ma serviva intervenire prima, ovvero quando si stava trattando l’ingresso – facendo swap suicidi per imbellettare i conti e farci apparire “degni” della moneta unica – e soprattutto il tasso di cambio. Ora, temo, sia tardi. Salvo non si arrivi al default e all’uscita dall’euro per espulsione o per deflagrazione della stessa zona euro.



Secondo, abolizione del Fiscal Compact. Anche in questo caso, si doveva intervenire prima, ovvero non accettando quelle regole deliranti che l’Ue ha imposto ai paesi membri, tutti tranne Regno Unito e Repubblica Ceca. Il trattato si apre con lo Stability Pact (Patto di Stabilità), che impone lo 0,5% per il rapporto deficit/Pil (soglia completamente irrealistica) e il 60% per il rapporto debito/Pil; se un Paese non sottosta alle imposizioni dell’Ue e non si adegua ai parametri stabiliti, scatta automaticamente la denuncia della Commissione europea al Consiglio europeo e alla Corte di Giustizia europea, che può imporre multe dello 0,2% del Pil.

La Germania gode di un particolare privilegio: si riserva infatti il diritto di poter denunciare un Paese che non rispetti i parametri anche in assenza dell’opinione della Commissione europea; per potersi opporre, gli altri paesi devono ottenere maggioranze qualificate; nella parte del cosiddetto Europact viene stabilito che la competitività di un Paese viene giudicata in termini di riduzione dei salari pubblici e privati e contemporaneo aumento della produttività del lavoro. La sostenibilità della politica fiscale viene giudicata in base alla spesa per previdenza, sanità, servizi pubblici: se un Paese spende troppo per questi capitoli, è pesantemente sanzionato.

Il Fiscal Compact richiede una revisione della contrattazione salariale e sindacale e la delocalizzazione della contrattazione salariale. Infine, richiede l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione. Delirante, non c’è che dire. Ma come si fa, ora? Occorre creare a livello europeo un fronte abbastanza forte da rimettere in discussione quel Trattato, sospendendone l’attuazione fino a quando non vengano riscritte le regole e le stesse non siano ratificate, questa volta sì, non solo dai Parlamenti sovrani ma anche tramite referendum popolare, in questo caso garantito da una deroga ad hoc della legge. Chi ci starà, però? I cosiddetti paesi periferici riusciranno a mettere da parte i propri egoismi e fare un fronte comune? Scusate, ma non ci credo. Inoltre, quelle regole sono propedeutiche alle politiche devastanti della troika e agli interessi dei creditori privati dei vari paesi, insomma i veri poteri forti che governano i processi politici in Europa e la nascita stessa dell’Ue, i quali vogliono garanzie per i loro business e il loro ruolo di creditori-padroni: occorrerebbe una sorta di rivoluzione generale, un fronte comune capace di sfidare banche centrali, banche private, fondi d’investimento e istituzioni finanziarie. Ci credete? Io no, mi spiace. C’è però un’altra ipotesi, ovvero lasciare che il Fiscal Compact si auto-ridiscuta, visto che nessuno dei quei parametri è attuabile senza devastare almeno i due terzi dei paesi che ne sono soggetti.

Terzo, adozione degli Eurobond. Altro capitolo annoso, visto che la Germania non ci sente da questo punto di vista e le agenzie di rating stanno lentamente devastandone le fondamenta stesse, visto che con l’addio alla tripla A dell’Olanda, il rating di credito di cui godrebbe quel bond, viste anche le condizioni macro di molti paesi membri, sarebbe decisamente più problematico non solo del Bund ma del Gilt britannico, del Treasury statunitense e anche dei bond giapponesi. A emettere quell’obbligazione sarebbe, di fatto, non un’entità politica sovrana, bensì un’area di adozione di una moneta comune composta da paesi completamente differenti tra loro, con economie diametralmente opposte, interessi contrapposti – basti pensare alla questione del surplus commerciale tedesco – e quindi una valutazione completamente diversa sul concetto di mutualizzazione del debito su cui gli Eurobond si fondano.

La Germania non accetterà mai di perdere lo status del Bund come bene rifugio obbligazionario per ritrovarsi a mutualizzare il proprio debito pubblico con quello greco, portoghese o anche italiano. Diversa sarebbe la mutualizzazione dei debiti dei paesi cosiddetti periferici, un “South-Europe-bond” con clausole di azione collettiva, ma anche in questo caso i rischi sovrani che sottendono quell’emissione la tramuterebbero quasi in automatico in veicolo per appetiti speculativi: ritengo che nel breve e medio periodo, l’unica strada percorribile sia quella di un’azione pervasiva sulla Bce affinché agisca se non come back-stop, almeno come garanzia sui debiti a rischio, finché i problemi maggiori non saranno risolti e la ripresa agganciata in maniera significativa dai paesi membri.

Quarto, alleanza tra i paesi mediterranei per una politica comune finalizzata eventualmente all’adozione di un Euro 2. Anche qui, il concetto di base non mi pare sbagliato, ma come attuarlo in concreto? A parte che andrebbero stracciati e riscritti tutti i Trattati fondativi della zona euro – e questo sarebbe il problema minore – come verrà ridenominato l’euro 2 rispetto al fratello del Nord, quello originario, a livello di contratti commerciali e denominazione dell’outstanding di debito pubblico in mani private estere? Ci vorrebbe una garanzia della Bce, magari attraverso un veicolo ad hoc che operi da clearing house, da camera di compensazione, per quei contratti: per arrivare a questo, però, occorre che la Germania accetti la spaccatura della zona euro, la creazione di una moneta più competitiva della sua e quindi la perdita di quegli status di privilegio commerciale che euro forte e lotta all’inflazione le hanno garantito fino a oggi: Berlino rinuncerà all’export per il bene del continente? La domanda è sempre la stessa, per quanto Beppe Grillo possa farla facile sul piano meramente teorico.

Quinto, investimenti in innovazione e nuove attività produttive esclusi dal limite del 3% annuo di deficit di bilancio. In questo caso, sono d’accordissimo e penso che il blocco dei Paesi del Sud – quelli più penalizzati dai vincoli deliranti del Fiscal Compact – dovrebbe davvero farsi carico di una battaglia in tal senso, se non vorrà continuare a scontare un gap di competitività non solo con il resto del mondo ma con lo stesso blocco “core” dell’Ue.

Sesto, finanziamenti per attività agricole finalizzate ai consumi nazionali interni. Non lo ritengo prioritario, ma certamente alzare la voce in sede comunitaria quando si discute di budget non sarebbe una cattiva idea, visto che persiste ancora oggi il rebate britannico e la Francia gode di costosissimi (per le tasche degli euro-contribuenti) sussidi per l’attività agricola che se garantiti all’Italia diverrebbero un volano economico incredibile. C’è però da dire una cosa: prima di andare a battere i pugni sul tavolo, sacrosanto, l’Italia si guardi allo specchio e impari a gestire, sfruttare e spendere i fondi comunitari di cui già oggi gode e che restano spesso inutilizzati o sotto-utilizzati.

Settimo e ultimo, abolizione del pareggio di bilancio. In questo caso, eminenti giuristi hanno già dimostrato l’illegittimità del pareggio di bilancio, quindi potrebbe essere la battaglia più perseguibile delle sette. Il Trattato sulla stabilità è in realtà, giuridicamente, un accordo di diritto internazionale fra Stati. Quindi, per l’Unione europea non ha forza di diritto costituzionale pari a quella dei precedenti Trattati. Questa soluzione è stata usata come uno stratagemma per aggirare il fatto che i vertici dell’Unione non avessero la possibilità di riformare il Trattato dell’Unione europea, per l’opposizione della Gran Bretagna e della Bulgaria. Insomma, l’intero MES è giuridicamente invalido, così come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio. Questa battaglia si può fare, ma, come sempre, ricorre la domanda: con quale forza e con quali alleati?

Diamo a Beppe Grillo ciò che gli spetta: è l’unico a parlare di questi temi, mettendo in discussione argomenti che paiono altrove – quasi ovunque a dire il vero – dei totem. Ma urlare in una piazza cose in parte vere, ancorché inattuabili, non serve a renderle del tutto vere e attuabili.