Non so quanti giornalisti che hanno commentato “l’accordo di programma” alla base della “Grande coalizione” in formazione nella Repubblica Federale abbiamo effettivamente letto e studiato il testo. Noi lo alleghiamo nella sua stesura originale. Coloro che leggono il tedesco (dovrebbe essere un requisito per potere fare il corrispondente da Berlino) possono apprezzare il dettaglio di un accordo in cui vengono delineati (e in certi casi articolati) i provvedimenti che intende prendere la “coalizione” nei prossimi quattro anni, sempre che il 14 dicembre i 470.000 iscritti al Partito Socialdemocratico lo approvino per referendum.



La procedura con cui si è giunti all’accordo ha aspetti politici interessanti per l’Italia. In primo luogo, a chi ironizzava sui tempi (lunghi) della trattativa (furono molto estesi anche nel 2005), occorre controbattere con la chiarezza delle 185 pagine del testo dell’accordo: non ci possono essere dubbi, come quelli sulla tassazione degli immobili che travagliano ancora, in Italia, il Governo Letta. Un altro punto di metodo riguarda la forza contrattuale del partner meno votato (e apparentemente più debole) della coalizione. Quasi tutti i punti programmatici (anche quelli di valore più propagandistico che contenutistico, come il pagamento di pedaggi sulle autostrade per i non residenti nella Repubblica federale) proposti dai socialdemocratici sono stati accettati dai cristianodemocratici e dai cristianosociali. Ciò vuol dire che, a differenza di quanto proclamino, da noi, i candidati alla segreteria del Partito Democratico, il Nuovo Centro Destra ha in mano le carte per orientare, se vuole, l’azione di governo in linea con i suoi ideali e principi.



Più importanti di questi aspetti politici sono i programmi economici e le loro implicazioni per l’unione monetaria e, in particolare, per l’Italia. In materia di politica europea, l’accordo propone solo in apparenza una strategia più “morbida” di quella degli ultimi anni. Le pp. 156-167 del documento non danno adito a dubbi: c’è un’apertura a favore dell’unione bancaria (entro limiti e vincoli molto precisi), ma una netta chiusura nei confronti di qualsiasi forma di mutualizzazione del debito pubblico. Anzi gli Stati con finanze pubbliche in difficoltà dovrebbero assumere “intese contrattuali specifiche e misurabili” per ridurre il fardello dei loro debiti pubblici.



Non mancano paragrafi sulla necessità di ridurre il “deficit democratico” (che affligge le istituzioni europee) e in difesa del “modello sociale europeo” (per gli Stati che se lo possono pagare). Quindi, nulla di promettente per coloro che pensavano che il Partito Socialdemocratico avrebbe portato il resto della Germania a guardare con maggior simpatia al Sud d’Europa.

Cosa dire in materia del programma interno di politica economica? Porterà a un aumento dei consumi interni e a una riduzione dell’attivo con l’estero riequilibrando i rapporti con il resto dell’area dell’euro, ma, al tempo stesso, consentendo alla Germania di continuare a essere la locomotiva del Vecchio Continente?

Il settimanale The Economist del 30 novembre è chiaro e netto: la “grande coalizione” (se applica il programma delineato nell’accordo) produrrà una “grande stagnazione” che frenerà il resto d’Europa e sarà fatale per Grecia, Italia, Spagna, Portogallo (e altri Stati a crescita prossima allo zero e finanza pubblica allo sfascio). The Economist ha buoni argomenti: l’introduzione di un salario minimo di 8,5 euro l’ora mentre molte aziende non solo dei Länder orientali ne pagano meno di 7 può aumentare i consumi di fasce a basso reddito ma far saltare numerose medie e piccole imprese; il ritorno a un’età pensionabile di 63 anni (invece che 67) per alcune categorie può mettere a repentaglio la finanza pubblica; l’impegno di chiudere i reattori nucleari entro il 2022 condanna industrie e famiglie ad alti costi dell’energia.

Sono tutti elementi che possono far rallentare un’economia il cui Pil è cresciuto appena dello 0,5% negli ultimi 12 mesi. Dato che il 13-14% dell’export italiano è diretto alla Germania, una frenata dell’economia tedesca non passerebbe senza ferire gli esportatori italiani e il loro indotto.

L’aspetto più inquietante è che l’accordo non prevede nulla di concreto in materia di investimenti pubblici, che sarebbero dovuti essere un cavallo di battaglia del Partito Socialdemocratico e una leva potente per aumentare la domanda aggregata, e trainare pure il resto dell’eurozona. Tra il 1991 e il 2012 la Germania ha tagliato del 20% la propria spesa per infrastrutture. Da anni non completa nuove opere pubbliche e per la manutenzione di quelle esistenti spende l’1,5% del Pil rispetto a una media europea del 2,5%.

Le autostrade sono ingolfate; ad esempio, il ponte che collega Colonia con la rete autostradale è stato costruito per una capacità di 85 mila auto al giorno, ma deve far fronte a un traffico di 120 mila. In termini di reti a fibra ottica, la Germania ha una copertura, in proporzione alla popolazione, inferiore a quella di Estonia, Lituania, Romania e Bulgaria. Un grande programma infrastrutturale potrebbe causare problemi di saldi spesa pubblica, essere neutralizzato da misure restrittive della Bundesbank e, soprattutto nel medio periodo, accelererebbe ulteriormente produttività e competitività nella Repubblica federale. L’accordo è molto timido in questo campo. Ne pagheremo tutti il conto.