Il vostro chroniqueur è quello che in inglese viene chiamato un contrarian. Non partecipa a “cori a cappella” e ha spesso punti di vista differenti, ove non divergenti, da quelli della grande maggioranza degli editorialisti. Per questo motivo, all’avvicinarsi del nuovo anno 2014, non brinda alla serenità e alla ripresa. Nell’Unione europea, e in particolare nell’eurozona, suonerebbe beffardo un peana alla serenità, dato che il tasso di disoccupazione, in senso stretto, nell’area dell’euro è pari a oltre il 12% delle forze di lavoro, e giunge al 15% se si aggiungono coloro, in età da lavoro, che scoraggiati hanno smesso di cercare un’occupazione. Ancora più fuori luogo sarebbe stappare champagne per una ripresa che nell’area dell’euro vuol dire (secondo le più recenti stime dei 20 maggiori istituti econometrici mondiali) passare da una crescita del Pil del -0,4% nel 2013 a una del +0,3% nel 2014. Non solo il +0,3% è caratterizzato da alta volatilità (basterebbe una leggera flessione in Nord Europa per tornare a un tasso negativo per l’intera area) e anche da un continuo gap tra il settentrione e il meridione dell’eurozona.



Gli italiani non nutrano illusioni: nella migliore delle ipotesi chiuderemo il 2014 con un Pil identico a quello del 2013 e occorrerà pazientare sino al 2024 per tornare a un reddito pro-capite ai livelli di quello del 2007. Sempre che tutto vada bene. A tal fine, occorre ricordare (con angoscia) che il 2014 è l’anno del centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale. Pochi anni prima, secondo Kevin O’Rourke, uno dei migliori storici economici di quel periodo, si era chiusa la grande fase d’integrazione economica internazionale 1870-1910, con cenni (peraltro poco notati) di ripresa del protezionismo commerciale, ma pochi pensavano che si stava per aprire un difficile “secolo breve” e un ancor più duro “secolo crudele” caratterizzato da guerre e stermini resi possibili proprio dalla tecnologia sottostante la globalizzazione 1870-1910.



Lo stesso giovane John Maynard Keynes, chiosando un libro di successo di Norman Angell, notava che il mondo (che contava) aveva raggiunto un livello tale di benessere (e un’integrazione così forte dei mercati finanziari) che in Europa una guerra sarebbe stata futile; ci sarebbero, al più, state guerre in lontani territori coloniali. Diversi anni dopo, un commediografo francese, Jean Giraudoux, mostrò la dinamica degli avvenimenti nella commedia La guerre de Troie n’aura pas lieu (“La guerra di Troia non si farà”), portata sulle scene in Italia unicamente da Diego Fabbri. Non solo greci e troiani, prosperi e molti simili, non avevano intenzione di prendere le armi, ma Paride, stanco e stufo di un’Elena leggermente ninfomane (e spesso sotto le lenzuola di uno o dell’altro tra i numerosi figli di Priamo), la aveva resa a Menelao, che se la era ripresa per evitare conflitti pur consapevole che non sarebbero mancate nuova corna, quando a un arciere che stava, stancamente, spolverando un arco partì una freccia: ci scappò un morto e dieci anni di guerra.



Non temo una guerra mondiale nel 2014, anche se pulluleranno quelle locali e il confronto in atto tra Cina e Coree, da un lato, e Giappone, dall’altro, non promette nulla di buono. Potrebbe, però esserci, una guerra economica nell’Ue in generale e nell’eurozona in particolare. Nel 1995-96, in due lavori distinti lo avevano preconizzato: uno di Martin Feldstein, Capo dei consiglieri economici nei primi anni Ottanta e per decenni Presidente (elettivo) del National Bureau of Economic Research, e l’altro di Alberto Alesina, Enrico Spolaore, e Romain Wacziarg. Alesina venne licenziato in tronco dal Tesoro dove faceva parte del Consiglio degli esperti del Direttore generale. I due lavori sostenevano che il Trattato di Maastricht era così mal congegnato che avrebbe provocato un aumento delle divergenze economiche e sociali nell’eurozona. Ciò avrebbe portato a un’implosione dell’Ue secondo Feldstein per guerre economiche che – secondo Alesina, Spolaore e Wacziarg – sarebbero anche potute essere armate.

A circa vent’anni distanza queste analisi non hanno perso attualità e validità, soprattutto se si tiene conto della “economia della paura” di cui scrive Paul Krugman: in Europa gran parte delle famiglie vive nella paura che uno dei congiunti perda il lavoro e che le nuove generazioni non abbiano mai accesso a un’occupazione regolare.

La Francia, potenza regionale in rapido declino, ma che ancora si illude di essere una “grande potenza” a livello mondiale, ha già scagliato i primi sassi frenando alla frontiera (in spregio al trattato di Schengen) immigranti sbarcati in Italia per ricongiungersi con le loro famiglie Oltralpe. Calpestando lo stesso Trattato di Roma, ha varato leggi secondo cui le televisioni e le sale cinematografiche debbano privilegiare la produzione nazionale. Sono prevedibili ritorsioni da altri paesi dell’area, dato che Parigi fa orecchie da mercante ai richiami della Commissione europea.

Il futuro ha molti tratti del passato. Buon anno (se potete).