Signore e signori, scordatevi l’acronimo Brics. I paesi emergenti non servono più, anzi è il caso che gli inflows di capitale che hanno fatto viaggiare quelle economie negli ultimi cinque anni tornino rapidamente a casa, ovvero si riallochino in assets denominati in dollari. È questa, unita all’intransigenza sulla questione siriana, la chiave di lettura che do alla Tangentopoli turca che sta scuotendo il governo Erdogan e schiantando l’economia della Mezzaluna, al netto della solita pantomima della corruzione e dei diritti civili. La colpa di Erdogan non è coprire ministri corrotti, bensì opporsi a determinate scelte geostrategiche e geofinanziarie eterodirette: non a caso, il suo principale antagonista, un filosofo-clerico islamista, Fethullah Gulen, è riparato da anni negli Usa. E, non a caso, tutto il mondo sa del fatto che la Turchia pagava in oro il gas e il petrolio iraniano per aggirare l’embargo contro Teheran, facendo gonfiare un traffico enorme che ovviamente porta con sé corruzione e storno di fondi neri: come mai solo ora esplode il bubbone? Perché ora fa comodo a qualcuno.
Goldman Sachs, ovvero la voce del padrone, l’altro giorno è stata netta: riducete le esposizioni dei vostri portafogli sui mercati emergenti dal 9% al 6%. Perché? «I guadagni non si sono rivelati attraenti come atteso, i tassi di crescita economica non sono sostenibili come immaginato e quelle nazioni non sono stabili come creduto». Insomma, una condanna a morte. Ma siccome il “taper” della Fed, che doveva avere come vittime immediate proprio i paesi emergenti e la fuga di capitali dagli stessi, non ha sortito l’effetto sperato – essendo un falso “taper” – ecco che serviva un acceleratore, come negli incendi dolosi. Detto fatto, scoppia la Tangentopoli turca. Che fa volare l’euro a nuovi massimi di sempre, anche contro il dollaro, e porta la lira turca a perdere il 6% verso la divisa europea in due giorni e il 25% da inizio 2013: già da maggio i fondi stranieri avevano cominciato a tagliare le detenzioni di debito turco di un quarto del totale. Qualcuno sapeva prima della Tangentopoli?
L’effetto domino potrebbe essere ora inevitabile, la grande rotazione degli inflows che si trasformano in outflows e tornano verso asset in dollari può avere inizio, garantendo alla Fed nuovo respiro e nuovo tempo per sgonfiare la bolla senza farla esplodere. D’altronde, le cifre sono alte: dal 2009 a oggi sono stati oltre 4 i triliardi di dollari pompati dai mercati verso i paesi emergenti, la grande parte dei quali “hot money” frutto di bolle speculative sugli assets. Ora, con il decennale Usa che prezza un rendimento sempre più vicino al 3%, livello che potrebbe colpire dollaro, mercato immobiliare e settore dei mutui, occorre agire: destabilizzando. E non solo la Turchia traballa, anche l’Indonesia, tanto che a Brics è stato sostituito un nuovo nomignolo: i “Fragile Five”, ovvero Indonesia, India, Brasile, Sud Africa e Turchia.
La rupia indonesiana la scorsa settimana era ai minimi dal 2008, giù del 22% da inizio anno. Mark Carney, governatore della Bank of England e uomo di Goldman Sachs, scriveva nella sua nota pre-natalizia che l’epicentro dello stress globale è passato da Occidente a Oriente: «Il più grosso rischio è il sistema bancario parallelo nei grandi paesi in via di sviluppo». I quali cominciano a perdere colpi almeno dal 2011 in verità, con Brasile e Russia che stanno flirtando con la recessione quest’anno: per qualcuno si tratta del contraccolpo per la fine del super-ciclo legato alle commodities, per qualcun’altro la fine di un modello di crescita garantito in gran parte solo da denaro a basso costo in arrivo dall’esterno. L’indice MSCI Emerging Markets è giù del 9% quest’anno, un risultato deludente se pensiamo al +28% dell’indice S&P 500 di Wall Street.
Ora le strade sono due: operare “contrarian”, ovvero tornare verso gli emergenti perché ritenuti a prezzo di saldo, oppure fuggire del tutto. Temo la seconda ipotesi, visto che se poi la Cina davvero rallenterà e crescerà nel 2014 solo del 5%, le Borse dei paesi emergenti conosceranno non un bagno di sangue ma una bella correzione. Chi sembra deciso a operare “contrarian” è Pimco, il principale fondo obbligazionario del mondo, a detta del quale il “taper” della Fed è già prezzato dai mercati e i paesi in esame hanno ampie riserve estere per tamponare gli shock: vero, ma le stanno anche bruciando in fretta, quelle riserve. Chi non la pensa così è il professor Barry Eichengreen, docente a Barkeley, a detta del quale la reazione al ciclo di liquidità della Fed rimane una minaccia, con nessun garanzia che anche paesi con forti fondamentali non vengano colpiti: «Un revival delle tensioni sui mercati emergenti della scorsa estate è una vera preoccupazione».
Insomma, un potenziale focolaio che aveva bisogno di un flashpoint, immediatamente rappresentato dalla Turchia, dove una crisi politica si sta tramutando in un crisi di assetto costituzionale, alla vigilia delle presidenziali 2014. Certo, Erdogan ha abusato di misure populiste prima delle elezioni dello scorso anno e la Banca centrale ha bruciato il 15% delle riserve estere per mantenere a galla la lira turca, ma una cosa sono gli errori politici sovrani, altro le strategie eterodirette. E la Turchia è il Paese perfetto da destabilizzare attraverso la finanza, essendo il più vulnerabile tra gli emergenti: il suo deficit estero – gran parte del quale detenuto da banche – è finanziato quasi esclusivamente da portafogli di inflows a breve termine e potenzialmente molto volatili. E qual è la kriponite della volatilità? Esatto, l’instabilità.
Il credito al settore privato è cresciuto di 10 punti percentuali del Pil nell’ultimo anno, tre volte il limite di sicurezza: la crescita turca, insomma, è semplicemente insostenibile. Il Fondo monetario internazionale già in ottobre aveva avvertito la Turchia sugli eccessi di spesa e aveva sottolineato che il Paese doveva abbandonare le speranze di crescita tra il 4 e il 5% all’anno: «Gli interventi sui tassi di cambio esteri non possono sostituire manovre monetarie appropriate», era la sentenza. Con questa postilla: «Le scelte di mercato verso un ritorno alle economie avanzate ha mostrato la grande vulnerabilità della Turchia: un indebolimento o una sparizione degli inflows di capitale rappresentano la sfida più grande».
E nel frattempo, la Russia è colpita da due attentati islamisti nell’arco di 48 ore, proprio alla vigilia delle Olimpiadi invernali di Sochi. Solo coincidenze.