Negli stessi giorni in cui gli italiani si dividevano sui riflessi politici delle vicende giudiziarie dell’ormai ex Senatore Berlusconi, il Governo, dopo aver richiesto, non si sa bene in base a quale norma, un parere alla Bce, ma senza averlo ancora ricevuto, approvava, il 27 novembre scorso, un decreto legge (n. 133/2013), concernente, tra l’altro, la Banca d’Italia. Per giustificare il ricorso alla decretazione d’urgenza, l’Esecutivo ha fatto riferimento alla necessità di superare asserite incertezze interpretative in ordine alla natura della partecipazione al capitale di Bankitalia e al suo contenuto economico.
La fumosità della motivazione porrebbe già il decreto fuori dal perimetro dell’art. 77 Cost., anche perché è inaudito che una questione ermeneutica possa di per sé legittimare il Governo a provvedere con forza di legge. Ma in realtà il decreto in parola non contiene alcuna norma interpretativa, bensì disposizioni innovative e abrogatorie, intese a sovvertire il precedente assetto giuridico dell’Istituto di via Nazionale, del suo capitale e del suo patrimonio.
Che quello dichiarato fosse un falso obiettivo risulta confermato dalla reazione stizzita del Ministero del Tesoro (con il comunicato stampa n. 239 del 2 dicembre 2013) alle critiche rivolte da più parti all’impianto e agli effetti del provvedimento d’urgenza. Qualche rilievo critico era occorso di fare anche a chi scrive, già prima che il decreto prendesse corpo e preconizzandone l’avvento, sulla base delle operazioni prodromiche messe in campo dalla Banca centrale e dai suoi esperti.
Non pare che né il decreto, né il comunicato esplicativo abbiano risolto o attenuato i dubbi e le preoccupazioni manifestati, specie per quanto riguarda le ricadute di sistema, a livello anche costituzionale. Conviene pertanto riproporre le questioni irrisolte alla pubblica attenzione.
Quanto ai dubbi interpretativi enunciati ma non individuati nel decreto, basti considerare che non avevano alcuna ragion d’essere. E infatti la partecipazione di soggetti privati al capitale della Banca d’Italia era seccamente esclusa dall’art. 20 del R.D. n. 375/1936, del quale non a caso il decreto legge dispone l’abrogazione: non è affatto vero, dunque – e basta un minimo di informazione sulla storia nazionale per avvedersene – quanto si lascia intendere nel comunicato del Ministero del Tesoro, secondo il quale l’assetto privatistico di Bankitalia avrebbe garantito l’autonomia e l’indipendenza dell’Istituto. Al contrario – e per ragioni meritevoli oggi ancora di attenta considerazione – già nel 1936 e sino a qualche giorno fa l’ordinamento escludeva i privati dal capitale di Palazzo Koch: l’anomalia si era determinata a seguito della stagione delle privatizzazioni, allorché le quote possedute dalle casse di risparmio e dalle banche di interesse nazionale, invece di essere “riconsegnate” allo Stato, rimasero nel patrimonio delle aziende di credito, divenute ormai società di capitali a regime puramente privatistico, con il risultato di concentrare nelle mani di Intesa Sanpaolo e di Unicredit circa il 52,4% del capitale.
Nessun dubbio interpretativo, dunque, ma, molto più semplicemente, una situazione di illiceità, derivante dall’omessa applicazione del disposto dell’art. 20 R.D. n. 375/1036, certamente non sanata, ma anzi aggravata, dalla modifica statutaria adottata nel 2006, che espungeva la precedente clausola riproduttiva, in sostanza, del dettato normativo primario. Ciò è tanto vero che, nel 2005, per porre rimedio a tale anomalia, la legge n. 262 (art. 19, co. 10) imponeva un preciso termine per la dismissione delle partecipazioni in mano privata, destinandole allo Stato e agli enti pubblici. Sennonché, con buona pace dei dubbi ermeneutici – che non suscitava davvero la norma appena richiamata – anche l’art. 19, co. 10 l. n. 262/2005 è prima rimasto inattuato ed è stato, poi, abrogato dal d.l. in commento.
Nei lunghi anni di illegittima persistenza di soggetti privati nel capitale della Banca, evidentemente assecondata da un disegno alternativo a quello legale, progettato e attuato ai margini dell’Istituto, i quotisti – e tra di essi soprattutto le banche – hanno valutato le proprie partecipazioni ben oltre il valore nominale, tenendo evidentemente conto del patrimonio della partecipata, comprensivo delle riserve auree. E così, per esempio, la Carige l’ha stimata in 22,1 miliardi di euro (v. la Repubblicadel 30/09/2013). E a tanto si perveniva includendo nelle quote anche le riserve ordinarie e straordinarie che compaiono nel bilancio di Bankitalia, nonché le risorse finanziarie della stessa, significativamente denominate, nei documenti di bilancio, “riserve ufficiali del Paese (oro e attività in valuta verso non residenti nell’area dell’euro)”. Ma la legge e lo statuto della Banca non lo consentivano, per almeno due ragioni: da un lato, perché le norme erano state pensate per un istituto al quale partecipassero esclusivamente soggetti pubblici (o a questi equiparati); dall’altro, perché le riserve, come ha dichiarato a Il Sole 24 Ore (6 settembre 2013) il Direttore generale, Salvatore Rossi, “sono state accumulate dalla Banca centrale attraverso la sua attività tipica che è quella di battere moneta, negli anni passati da sola, oggi in condominio con la Bce. Una funzione pubblica, peculiare della banca centrale, su cui i partecipanti non possono avere pretese”.
È accaduto, quindi, che, invece di resistere alla pressione delle banche, le quali agiscono secondo la logica commerciale, il Governo ha pensato bene di legittimare il loro metodo di “computo”, pur contenendone i risultati, ricorrendo a un criterio elaborato da una commissione di esperti: ma tanto quanto basta per contribuire ad ausiliarle nella soluzione del loro notissimo problema di consistenza patrimoniale, alla stregua dei criteri di Basilea 3.
La soluzione, che peraltro urta contro il divieto europeo di concedere aiuti di Stato (i partecipanti al capitale della nostra Banca centrale si vedrebbero attribuire un diritto di appartenenza su beni pubblici) è stata “indorata” con pretesi benefici fiscali che ne deriverebbero per le casse dello Stato, senza, tuttavia, considerare che il tributo (che dovrebbe peraltro essere determinato con un’aliquota agevolata) trova più che ampia copertura nell’incremento attribuito (in sostanza a titolo gratuito) dallo Stato alle quote del capitale dell’Istituto centrale.
Ma non è tutto: la privatizzazione della Banca d’Italia, sancita dalla riconfigurazione dei soggetti ammessi a detenerne le quote, in gran parte di natura privata, includendovi anche entità straniere, ancorché comunitarie, porta con sé un altro rilevantissimo effetto, sul quale tace anche il comunicato di via XX Settembre. Il provvedimento governativo, recependo puntualmente le indicazioni formulate dal suddetto comitato di esperti – i quali avevano suggerito di deconcentrare l’appartenenza del capitale, riunito in poche mani, previa, però, rivalutazione delle quote – fissa al 5% del capitale il limite massimo di partecipazione con diritto di voto e agli utili, così incentivando la cessione delle eccedenze.
Ora, è ben noto e persino ovvio che, nelle eventuali negoziazioni destinate alla cessione delle quote il loro valore verrebbe stabilito facendo riferimento anche al patrimonio della Banca d’Italia, nel quale rientra l’oro che l’Istituto ha accumulato nei molti anni nei quali ha esercitato la funzione pubblica di emissione monetaria: si tratta, in altri termini, delle riserve auree, la consistenza delle quali situa l’Italia al quarto posto della graduatoria mondiale. Secondo voci autorevolissime, benché ufficiose, esse sarebbero sufficienti a garantire l’intera emissione di moneta nazionale, allorché lo Stato italiano decidesse di recedere dall’Eurosistema o vi fosse costretto.
È un aspetto del quale, forse non a caso, si parla ben poco, anche nelle trattazioni giuridiche dedicate alla Banca centrale: ma l’analisi della normativa sinora vigente induce a ritenere che si tratti di beni pubblici di natura quasi demaniale, destinati a uso di utilità generale, che Bankitalia non avrebbe più titolo per detenere, essendo la sua funzione monetaria confluita in quella affidata ormai alla Banca centrale europea (alla quale, infatti, l’Istituto di via Nazionale ha dovuto conferire un parte delle nostre riserve in valuta). L’oro, insomma, sarebbe degli italiani e dovrebbe pertanto essere restituito allo Stato.
Non è difficile immaginare, allora, lo scenario che si aprirebbe se, a privatizzazione avvenuta, si decidesse o si avesse necessità di riportare la Banca d’Italia in mano pubblica: le quote dovrebbero essere acquistate, ovvero espropriate facendo riferimento a un valore esorbitante (si pensi che, nello stato patrimoniale della Banca al 31/12/2012 la voce “oro e crediti in oro” ammonta a 99.417.221.610,00 euro), con prevedibili gravissimi effetti sul debito pubblico e con pesanti riflessi sulla sorte delle riserve auree, sempre che se ne possa predicare la legittima appartenenza alla Banca d’Italia, come essa a tutt’oggi assume, facendo generico riferimento non a una legge, ma alla legge.
Che se poi tale assunto fosse fondato, l’operazione di privatizzazione portata a termine potrebbe mettere a rischio, fino a renderla impossibile, la destinazione delle riserve alla funzione di emissione della moneta, qualora si volesse o si dovesse tornare alla valuta nazionale.
E non è indifferente, anche in questa prospettiva, il fatto che, secondo il vigente Statuto di Bankitalia (art. 6), sul quale il decreto parrebbe non incidere, sono i partecipanti, riuniti in assemblea straordinaria, a decidere sulle sue modificazioni.
In definitiva, la rivalutazione delle quote della Banca d’Italia, insieme con un (dubbio) provento fiscale, è suscettibile di portare con sé conseguenze tutt’altro che favorevoli per gli italiani. E sarebbe auspicabile che le Camere, chiamate a convertire il decreto, si dessero carico dei numerosi problemi e delle pericolose implicazioni che la normazione di urgenza varata dal Governo suscita e produce.