Sergio Marchionne, da Washington, dà questo consiglio: “In Italia dobbiamo fare come la Spagna che è andata avanti sulle norme per il lavoro, la lotta alla burocrazie e la riforma della Pubblica amministrazione”. Non è il primo ad aver scoperto “la straordinaria e sorprendente determinazione di Madrid sulla strada delle riforme” di cui si legge in un recente report di Goldman Sachs che ha preceduto di pochi giorni la promozione del rating dei Bonos, con un outlook da “negativo” a “stabile”. Ma la banca d’affari Usa si è spinta oltre: chi ha deluso le nostre attese, si legge, è stata l’Italia. Ovvero, a fronte della serietà con cui Madrid si è sottoposta alle terapie previste dal Fiscal compact figura la lunga lista di promesse rinviate del Bel Paese, l’unico che non ha mostrato segni di ripresa sul fronte della produttività.
L’esempio virtuoso di Madrid non è isolato. L’Irlanda presto tornerà a operare sul mercato dei capitali. Il Portogallo vara una finanziaria estremamente impegnativa, premiata dai mercati che accettano di rinviare di due anni le scadenze di varie emissioni di titoli. Insomma, l’Europa sembra più forte di tre anni fa. Ma questo, per paradosso, rende l’Italia più debole in rapporto agli altri: a differenza di aree ritenute più deboli, non abbiamo fatto i passi in avanti che ci si attendeva. Eppure, per dirla con Olli Rehn, “l’Italia ha grandi potenzialità di crescita. Se davvero riuscisse a riformare il proprio sistema economico e giudiziario, potrebbe registrare una crescita superiore a quella di molti altre nazioni. Ma il vostro Paese ha un estremo bisogno di rilanciare la propria economia e la propria competitività”.
Ovvero, fare quel che si è fatto tra Madrid e Barcellona, nonostante le grandi rivalità regionali. La pagella del Paese iberico ha aspetti sorprendenti: già alla fine del terzo trimestre la Spagna è uscita dalla recessione, grazie soprattutto al boom delle esportazioni che hanno riportato in nero la bilancia commerciale: da un passivo del 2% a un surplus del 10%. Merito dei bassi salari, ma non solo. La riforma del lavoro spagnolo, a differenza di quella varata in Italia, ha premiato anche i contratti a tempo determinato con un occhio di riguardo sul fronte fiscale per le piccole imprese che assumono anche part-time, favorendo un forte recupero della produttività, grazie alla flessibilità. Mentre in Italia la parola d’ordine resta “non toccate i diritti”, i sindacati spagnoli hanno adottato la regola che “è meglio un cattivo lavoro che nessun lavoro”.
A partire dalla flessibilità: alla Ford di Valencia nel 2012, in un momento di stanca della domanda, i lavoratori sono stati lasciati a casa cinque giorni, uno stop recuperato lavorando cinque weekend di fila in primavera. È l’effetto dell’accordo con i sindacati, durata cinque anni, che ha convinto Ford a scegliere la città spagnola nel 2011, nel momento peggiore della crisi europea. “In Spagna -sottolinea Marchionne – noi ci siamo e non abbiamo mai avuto alcun problema”.
È l’auto, del resto, la carta giocata dalla Spagna per colmare il vuoto dell’edilizia. Dalle catene di montaggio delle fabbriche d’auto Volkswagen, Peugeot, Renautl, Gm, Toyota e così via usciranno quest’anno 2,2 milioni di vetture, ovvero il 10% della produzione industriale spagnola. Certo, la disoccupazione si mantiene su livelli stellari, oltre il 25%, ma non cresce più, anzi si rivedono le prime assunzioni. Senza dimenticare che gli ammortizzatori sociali spagnoli (un assegno di disoccupazione per due anni) incentivano l’iscrizione alle liste dei senza lavoro, a differenza di quel che accade in Italia, specie tra i giovani.
Anche l’enorme stock di case invendute è in via di smaltimento, grazie agli acquisti dei private equity americani a caccia di investimenti a buon prezzo. La creazione della bad bank, in cui sono confluiti gli immobili invenduti in mano alle banche, garantisce qui (a differenza che in Italia) un’offerta “pulita” e di grandi dimensioni. Crescono intanto gli investimenti dall’estero, raddoppiati rispetto a dodici mesi fa, mentre scende il debito privato, dal 230% al 200%, una delle eredità più amare della bolla del mattone. Insomma, a crisi morde ancora, come ha sottolineato il commissario Ue Olli Rehn, scettico sulla possibilità che la Spagna rientri nei parametri di Maastricht entro il 2015.
Madrid, che a differenza dell’Italia, ha chiesto di essere esentata dal tetto del 3% sul Pil previsto da Maastricht, quest’anno chiuderà con un deficit del 6,5%o, lontana dai canoni di Bruxelles ma assai meglio del 2011, quanto lo sbilancio era dell’11%. Un taglio netto, reso possibile dal machete sui costi dello Stato, a partire dagli stipendi pubblici.
Insomma, per dirla con Marchionne, la Spagna ha fatto le sue scelte. In particolare, si è assunta l’impegno di sopportare la supervisione Ue sulle banche, operazione tutt’altro che indolore che ha spezzato i poteri locali delle cajas, a partire dai legami con il mondo degli imprenditori edili. Un’operazione, per giunta, che ha infranto equilibri vecchi e nuovi: è stata imposta, ad esempio, la cessione dei pacchetti azionari delle banche in Iberia, ormai sotto il controllo di British Airways. Ma queste scelte (Stato più snello, contratti di lavoro più flessibili, banche più povere ma senza scheletri nell’armadio) hanno consentito alla Spagna di riprendere il suo cammino, agevolato da un’industria del turismo funzionale, una struttura di grandi imprese (ultimi casi, Zara e Desigual), servizi e infrastrutture efficienti, grazie a un impiego meno sciagurato del nostro di fondi pubblici italiani ed europei.
Si può sperare, come suona il libro dei fratelli Rosselli, di dire un giorno “Oggi in Spagna domani in Italia”? La sensazione è che la classe dirigente spagnola del post-franchismo è cresciuta con una bussola orientata verso l’Europa, decisa a lasciarsi alle spalle un passato comunque drammatico. L’Italia, al contrario, vede l’Europa come un giudice severo, quasi un intruso nelle vicende di cortile.