La Banca entrale europea ieri non ha deciso nulla di nuovo, ma ha discusso ampiamente sugli strumenti a disposizione nei prossimi mesi, lanciando alcuni messaggi non del tutto positivi per l’Italia. L’inflazione resterà bassa a lungo. Per un Paese fortemente indebitato non è una bella prospettiva. È vero, ciò mantiene i tassi di interesse vicini a zero, quindi indebitarsi è meno costoso, ma il tono fiacco dei prezzi è lo specchio di un’economia che si muove troppo lentamente o resta praticamente ferma. Nel terzo trimestre dell’anno, ha spiegato Mario Draghi, il prodotto lordo della zona euro è salito dello 0,1% rispetto al trimestre precedente, insomma siamo in pieno errore statistico. “Guardando al 2014 e al 2015 – ha aggiunto il presidente della Bce – è prevista una lenta ripresa della produzione”. Saranno solo le esportazioni, non la domanda interna, a fare da traino. Davvero troppo poco.



La banca centrale continuerà nella sua politica monetaria accomodante. Ma non basterà. La Federal Reserve ha acquistato titoli immobiliari, ciò ha rimesso in moto il mercato delle case, volano fondamentale per la ripresa americana. Anche la crescita britannica che ha sorpreso molti è dovuta al sostegno all’edilizia e ai consumi interni attraverso la banca centrale. Draghi è apparso cauto se non scettico sugli stimoli: “Bisogna prima fare le riforme strutturali – ha detto – in modo da preparare le economie, altrimenti ogni stimolo sarà inefficace”. Insomma, un po’ Keynes, un po’ Friedman.



Il modello anglo-americano è più flessibile, quindi più reattivo di quello renano, ma il messaggio della Bce è rivolto soprattutto ai paesi del sud e in particolare all’Italia. Perché, inutile girarsi attorno, nonostante le condizioni fondamentali dell’economia italiana siano nell’insieme migliori, né Mario Monti, né Enrico Letta possono vantare una sia pur modesta ripresa, favorita, come in Spagna, dalla molla proveniente dal mercato del lavoro. Deflazione salariale e disoccupazione sono il lato oscuro della via iberica. Il ritorno alla crescita, se confermato, ne rappresenta il volto positivo. L’Italia è rimasta di nuovo in mezzo al guado: incapace di realizzare fino in fondo una “svalutazione interna”, ma priva dei mezzi per praticare il deficit spending, ha preso il peggio di entrambi i modelli senza migliorare davvero i conti pubblici.



Olli Rehn può essere antipatico, ma difficile negare che abbia ragione quando dice che il debito continua salire mentre l’anno prossimo avrebbe dovuto cominciare la sua pur lenta discesa, il disavanzo è troppo elevato mentre doveva essere in pareggio strutturale, e l’obiettivo del 3%, agitato come un feticcio dal ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni, è ad alto rischio. In questo modo, non sarà possibile far leva sugli investimenti pubblici per sostenere l’economia. Gli ultimi dati sul fabbisogno sono inquietanti: a novembre è arrivato a 94,3 miliardi, ben 31,7 in più rispetto allo stesso periodo del 2012. Così, il rapporto tra deficit e Pil è superiore al 5%; altro che quota 3.

Vanno male le entrate, nonostante le stangate fiscali, perché si riduce il reddito imponibile. E vanno male le uscite, perché la crisi rende incomprimibile non solo la spesa sociale, ma qualsiasi erogazione pubblica che sostenga in qualche modo il reddito. La stessa spending review è un esercizio ai limiti del possibile e Rehn, realisticamente, pensa che Carlo Cottarelli potrà mostrare qualche risultato soltanto tra un anno. Hai voglia a proclamare la linea Maginot se non hai costruito le trincee.

“Il consolidamento fiscale deve proseguire, in modo growth-friendly”, ha detto ieri Draghi. Ma per farlo occorre che la crescita venga spinta in qualche modo. Le riforme, del resto, impiegheranno almeno tre anni prima di produrre effetti tangibili con la congiuntura, lo hanno illustrato chiaramente gli studi realizzati dal Fondo monetario internazionale. Keynes più Friedman anche per Olivier Blanchard, capo economista del Fmi. Gli stimoli debbono passare attraverso una politica di bilancio più coraggiosa che recuperi risorse dal lato delle spese improduttive per favorire la riduzione delle imposte, tuttavia non ci sono spazi abbastanza ampi. Occorre, dunque, un aiuto dalla banca centrale.

Il modello è quello anglo-americano, non ci sono vie traverse. La spinta deve venire dalla domanda interna: case e consumi, ancora e sempre. Viviamo nell’era web, ma a fare da locomotiva non è lo smartphone, bensì il banale mattone. Mutui dall’elicottero, dunque, che è come gettare moneta.

Draghi sostiene di avere a disposizione una gran quantità di munizioni, un’intera santabarbara. Ma serviranno se e quando si presenterà una crisi generale dell’euro. Pochi giorni fa Ignazio Visco ha fatto sapere che il rischio non è affatto scongiurato. E proprio l’Italia resta l’anello debole. Come due anni fa? Chissà, forse ancora peggio perché allora le micce che accendevano l’incendio erano più d’una. Oggi debolezza economica, incapacità di tenere la rotta del risanamento, fibrillazioni politiche (s’aggiunge anche la crisi istituzionale provocata dalla bocciatura del Porcellum), ambizioni di nuovi leader emergenti (a cominciare da Matteo Renzi alla conquista del Pd), tutto ciò solleva nuove incognite e addensa altre nuvole che da Roma arrivano a Bruxelles passando per Francoforte.

La netta sensazione è che Draghi non possa più fare molto, non tanto per mancanza di strumenti tecnici (nonostante sia più limitata della Fed, la Bce ha ancora margini d’azione), quanto per i limiti politici imposti dalla Bundesbank. “L’Italia faccia come la Spagna”: di qui al consiglio Ue del 19 e 20, il tam tam si farà assordante. La Germania vuole far passare i contractual arrangements, accordi in base ai quali per ottenere aiuti dall’Ue bisogna attuare obbligatoriamente le raccomandazioni di Bruxelles, un impegno stringente quasi quanto il Fiscal compact. Letta sostiene che le intese debbono essere non solo consensuali, ma volontarie; però sa che non ci vuole molto a trasformare la volontà in necessità. Basta un attacco sui mercati dal lunedì al venerdì. Quanto alle riforme, inutile girarci attorno, quella che importa davvero all’Ue riguarda il mercato del lavoro. Governo avvisato mezzo salvato.