Olli Rehn insiste.  Il vicepresidente della Commissione europea, nonché commissario agli Affari economici, per bocca del suo portavoce ci ha fatto sapere che «l’Italia è grosso modo in linea sull’obiettivo del deficit, ma sul criterio del debito, ci sono circa 0,4% di sforzi strutturali supplementari che bisognerebbe fare per dire con certezza che l’Italia è ben indirizzata verso il raggiungimento dell’obiettivo sul debito nel 2014». “Grosso modo”, ha detto. Un sistema per banalizzare gli enormi sforzi compiuti dal Paese per essere l’unico, assieme alla Germania, a essere rimasto sotto il tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil e tutti i sacrifici degli italiani. Perché tutto ciò? Lo abbiamo a chiesto a Claudio Borghi Aquilini, professore di Economia degli intermediari finanziari all’Università cattolica di Milano.



Perché l’Europa agisce così nei nostri confronti?

Questo tipo di comportamento non mi stupisce per nulla. Non mi stupirei neppure se questo genere di martellamento fosse incoraggiato da qualcuno all’interno del governo, per poter giustificare qualunque scelta scellerata con il ben noto: “Ce lo chiede l’Europa”. Del resto, nel Parlamento, nessuno era d’accordo con l’aumento dell’Iva. Eppure, è passata. Sa perché?



Ce lo dica.

Perché non siamo più una democrazia, e il Parlamento è un fantoccio nelle mani di Burxelles.

Questo 0,4%, come lo otterremo?

Parliamo di circa 6 miliardi di euro. Non è pensabile recuperarli, date le nostre regole di bilancio, in maniera “espansiva”. L’unica soluzione che potranno adottare è l’ennesima manovra recessiva. Che si tratti di taglio della spesa o di aumento delle tasse, sarà comunque recessiva.

La politica potrebbe fare le riforme.

Certo. Astrattamente, riforme come quelle della giustizia valgono diversi punti di Pil. Nei fatti, realizzate le riforme, non ci troveremo di certo con dei miliardi di euro in più da mettere a bilancio. Inoltre, i calcoli sull’indotto generato da tali provvedimenti non tengono conto delle condizionalità italiane.



In che senso?

In un Paese normale, avere una giustizia efficiente determina un vantaggio in termini di maggiori risorse e aumento di Pil. In un Paese come l’Italia, dove i rubinetti del credito sono a secco, le aziende chiudono, e nessuno intraprende, ha un effetto pari a zero. Per intenderci: possiamo stimare che modificando l’elica di una barca, questa vada più veloce. Ma se la barca sta affondando, è un’operazione inutile. Resta vero il fatto che un’elica nuova rende una barca più veloce.

 

Come facciamo a non affondare?

Rimuovendo le ragioni dell’incertezza e delle condizionalità alla base della situazione. A partire da un cambio artificialmente svantaggioso per l’Italia, destinato matematicamente, come tale, ad aumentare la disoccupazione.  Insomma, nel 2008, eravamo più forti della Gran Bretagna. Con l’inizio della crisi finanziaria, era il Paese con più problemi di tutti; se, invece che sfogarsi sulla svalutazione, si fossero accaniti sui d’interesse e sui cittadini, sarebbe saltato. Quindi, se in quel momento era debole, è stato giusto che la valvola di sfogo per tenersi a galla sui mercati sia stata la svalutazione della sterlina. L’ideale, dunque, sarebbe ovviamente uscire dall’euro.

 

Altri modi per rimuovere le condizionalità?

Ce ne sono altri due. Ma non sono plausibili: il primo consiste nei trasferimenti interni all’Europa. Ciò significa che la Germania dovrebbe farsi carico dei debiti dei paesi in difficoltà. Evidentemente non lo farà mai, salvo imporre condizioni devastanti come ha fatto con la Grecia; il secondo modo per svalutare indirettamente, consiste in un drastico taglio dei salari, ipotesi anch’essa del tutto impraticabile.

 

(Paolo Nessi)