«Abbiamo evitato il collasso. Ma non dobbiamo rilassarci, perché il 2013 è l’anno decisivo, quello make-or-break». Insomma, “o la va o la spacca”, per tradurre in maniera colorita l’espressione del direttore generale del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, pronunciata al meeting di Davos e che descrive bene lo stato attuale dell’economia mondiale, a metà del guado tra crisi e ripresa. Ovvero, per concentrare l’attenzione sull’Italia, tra austerità e necessità di rilanciare la crescita. Scelta delicata, perché la congiuntura resta senz’altro fragile.
I vantaggi, rispetto a un anno fa, sono evidenti. La fiducia, grazie all’azione delle banche centrali, è migliorata, come dimostra non solo l’andamento dello spread tra Btp e Bund, che si è dimezzato da luglio a oggi, ma anche, cosa meno nota, il contemporaneo calo dello spread tra il Libor e l’Ois (Overnight indexed swap rate), che misura il rischio default sul mercato interbancario. Un anno fa nessuno prestava un dollaro alle banche di casa nostra. Pochi giorni fa, l’offerta coordinata da Morgan Stanley di un bond Banca Intesa per 3,5 miliardi è andata a ruba: oltre 400 controparti, in pratica da tutto il mondo, hanno prenotato tranches dell’emissione.
I capitali tornano, seppur in maniera graduale, nella periferia dell’eurozona, anche se ci vorrà tempo per colmare gli enormi sbilanci del recente passato: nei primi otto mesi del 2012 sono scappati dall’Europa periferica (Italia e Spagna in testa) verso i “porti sicuri” 400 miliardi di euro che si aggiungono agli oltre 300 fuggiti nel 2011. Anche dai paesi emergenti, dopo le paure per la frenata dell’economia cinese ormai rientrate, arrivano note di conforto: le Borse segnalano una crescita del 13% circa rispetto ad un anno fa. Anche lo spread verso l’area Ocse si riduce di 127 punti base. Insomma, il mondo sembra un posto meno pericoloso di un anno fa. Ma le conseguenze della crisi si fanno ancora sentire.
Nello scorso mese di dicembre, notizia di ieri, le vendite al dettaglio in Germania sono scese del 4,7% sullo stesso mese del 2011. Gli analisti prevedevano in media un calo dell’1,5%. La frenata dell’economia tedesca arriva dopo il brutto dato dell’economia Usa, che nel quarto trimestre 2012 ha registrato una contrazione del Pil dello 0,1%, contro attese di crescita dell’1,1%. Un dato da non sopravvalutare, influenzato com’è da dati stagionali (gli strascichi dell’uragano Sandy), ma che merita comunque attenzione: la frenata coincide con il brusco calo degli ordini all’industria della difesa, trend destinato a proseguire in tempi di tagli alla spesa pubblica.
In sintesi, l’azione delle banche centrali, assolutamente inedita sia nelle dimensioni che nelle premesse ideologiche (tutti, compreso Mario Draghi sono stati assai più aggressivi di quanto non prevedessero le linee maestre pre-crisi), ha evitato il collasso. Ma la partita è tutt’altro che vinta: l’aggressività della Fed non è bastata finora a riavviare un ciclo virtuoso per l’occupazione. L’Europa dovrebbe accelerare, ma il condizionale è d’obbligo, anche perché la ripresa del credito finora non ha contagiato l’economia reale, ma è rimasta racchiusa nei recinti dei sistemi bancari, tutti più o meno indeboliti dalla crisi e dalle scommesse finanziarie. E c’è chi, come l’economista William Buiter, pessimista a oltranza, prevede che l’Italia continuerà a rimpicciolire anche nel 2014 e non di poco (-1,4% nel 2013 e -1,4% anche nel 2014), per cui l’Eurozona risulterà a crescita negativa fino al 2015.
Speriamo che esageri, ma anche le previsioni del Fmi lasciano prevedere un mondo in grigio piuttosto che in rosa: la crescita Usa sarà del 2%, in Giappone non si salirà oltre l’1,2%, il Regno Unito si fermerà all’1%. L’Eurozona, zavorrata da Italia e Spagna, segnerà un +0,2%, accentuando il divario con le economie emergenti, in crescita del 5,5%.
Di qui prende piede, anche negli ambienti più conservatori, l’idea che sia necessario procedere al più presto a un cambio di passo, anche per evitare tentazioni pericolose. Sul fronte dei cambi, ad esempio. Da alcune settimane l’euro si rivaluta contro dollaro, sterlina, yen e renminbi, valute di paesi che nel 2013 cresceranno tutti più dell’Eurozona e perfino più della Germania da cui si è levata, furente, la voce del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann: guai a scatenare la guerra delle valute, conseguenza secondo Weidmann della fine dell’indipendenza delle banche centrali. Ma l’euro forte rischia di essere un problema assai più grave per noi piuttosto che per la Germania: avere una valuta che si rafforza in queste condizioni è l’ultima cosa che occorre a Francia, Italia e Spagna.
In un mondo ideale, l’euro forte andrebbe contrastato con una politica monetaria espansiva in Europa o con politiche monetarie restrittive nel resto del mondo. Ma, ahimè, non viviamo in un mondo ideale. Inoltre, scrive Martin Wolf sul Financial Times «il pericolo è di archiviare troppo presto o troppo tardi la politica monetaria espansiva: troppo presto, e la ripresa abortirà; troppo tardi e il bubbone dell’inflazione tornerà a farsi sentire».
Brendan Brown, chief economist di Mitsubishi Financial Ufj Securities International, ha evocato a Davos un precedente storico inquietante. Tra il 1933 e il 1936 la Federal Reserve praticò con successo una politica monetaria espansiva, con ottimi effetti sulla Borsa, in parallelo con la svalutazione del dollaro. Questi fattori favorirono una forte ripresa dell’economia, accompagnata dalla rivalutazione delle materie prime e dell’immobiliare, oltre che del mercato azionario. Ma la speranza della ripresa venne meno nel 1937 per il concorso di vari elementi: il consolidarsi del nazismo; il riarmo giapponese e la crisi cino-giapponese; le tensioni monetarie in Europa; la scelta della Fed di rivedere la politica monetaria su tassi normali. Un cocktail che fece precipitare il mondo in una seconda ondata recessiva.
Oggi la situazione, facendo gli scongiuri, sembra assai diversa. Ma ripensare alla storia non è mai materia vana: Cina e Giappone, del resto, litigano ancora oggi; l’Europa è più forte di un anno fa, ma assai divisa quando le questioni toccano le banche (e il portafoglio). La liquidità immessa nel sistema è assai più elevata di qualsiasi precedente storico. Ancor più forte è il rischio opposto: sperare di reflazionare all’infinito, come si ripromette il premier giapponese Shino Abe, incurante dei rischi di una guerra valutaria e commerciale o ancor di più della scoppio di una probabile bolla di inflazione da assets.
Guai a nutrire l’illusione che il mondo abbia già voltato pagina. O che l’Italia possa agganciarsi, dopo il voto, al carro della ripresa altrui. Purtroppo i compiti a casa, chiunque vinca, vanno ancora fatti. “L’austerità di bilancio – scrive Alessandro Fugnoli – è stata realizzata nel modo peggiore, attraverso le tasse, e non si intravedono approcci molto diversi in futuro. La disoccupazione non è aumentata molto, perché le imprese hanno provato a resistere più a lungo che in Spagna, ma il risultato è che la competitività non è migliorata e l’Italia continuerà ad avere le partite correnti in passivo, nonostante il crollo di consumi e importazioni. Nei prossimi mesi le imprese saranno costrette a licenziare e la disoccupazione salirà rapidamente. Avremo anche noi, a quel punto, la nostra svalutazione interna”.
Si sta meglio di un anno fa, ma la montagna è ancora da scalare.