“Fuori la politica dalla banche”, torna a chiedere Mario Monti in versione candidato centrista anti-Pd: ma come minimo dimentica che il caso Mps ha le sue radici nella massima espansione della finanza “autoreferenziale” nell’Italia del bancocentrismo misto. Dimentica che proprio lui – in versione Goldman Sachs, sulle colonne de Il Corriere della Sera – chiedeva fra i primi, con toni virulenti, la cacciata del Governatore Antonio Fazio per consegnare le chiavi del Paese al “mercato” dell’Abn Amro. Dimentica di aver sostenuto sul piano culturale il “diritto storico” degli olandesi di acquisire AntonVeneta contro il “paria” padano Gianpiero Fiorani: per portare finalmente il vento salutare della concorrenza globale nella foresta pietrificata delle Fondazioni e delle Popolari.



Ma abbiamo visto tutti com’è andata a finire: l’ex presidente-bancarottiere dell’Abn, Rijkman Gronenink, si gode tranquillamente la sua ricchissima buonuscita nella sua tenuta del Chianti, mentre l’ex presidente di Mps, Giuseppe Mussari, è ormai quasi ai domiciliari, solo qualche chilometro più in là. Ma chi è più colpevole? E di cosa? Il punto resta questo e in questi termini pare effettivamente “da campagna elettorale”: il caso Mps è stato determinato dalla degenerazione della politica o dalla sua resa nei confronti dei banchieri?



Tirato per la giacca, anche Pierluigi Bersani ha finito per semplificare, rigirando la frittata al neo-rivale Monti: “Fuori i banchieri dai partiti”. Ma si prende anche lui un grosso rischio reputazionale: era lui il braccio operativo del premier Massimo D’Alema quando nel ’99 i Ds tentarono il “colpo del secolo” con l’Opa Telecom (e inizialmente ci riuscirono). E chi c’era con loro a soffiare nelle vele di Roberto Colaninno? Mediobanca e JP Morgan. E qual era il rapporto fra l’Unipol di Giovanni Consorte (scalatrice fallita di Bnl e oggi “cavaliere bianco” di FonSai e Mediobanca) e il Pd dalemiano? Erano i politici a controllare i finanzieri della Lega Coop o viceversa?



Certo, per “par condicio”, è giusto ricordare che dietro la resistibilissima ascesa di Fiorani, banchiere-stregone della Padania, c’era anche Silvio Berlusconi. Ma nella sua condizione strutturale di conflitto d’interesse antropologico, il “merchant prince” di Arcore ha forse rappresentato il tentativo più originale di combattere frontalmente l’intreccio politico-bancario. Quell’establishment in cui la Mediobanca di Cuccia chiudeva all’improvviso i rubinetti del credito (ma lui lo ritrovò all’Imi, alla Banca di Roma di Cesare Geronzi, alla Popolare di Novara, allo stesso Mps, in un sistema bancario a suo modo “concorrenziale” prima della grande crisi).

Quel sistema dei partiti che non ha mai cessato di essergli ostile anche “per via bancaria”: basti pensare al ruolo di un Alessandro Profumo (assiduo a tutte le primarie Pd) o di un Giovanni Bazoli, che oggi ha candidati nelle liste Pd lombarde il genero, il nipote e il giornalista preferito.

“Chiarezza e interesse nazionale”, ha obbligatoriamente prescritto come cura il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. “Programma troppo vasto”, avrebbe però sospirato un suo indimenticabile collega francese, il generale De Gaulle.