Sale la tensione sulla situazione di Cipro. Ieri, con un’intervista al giornale economico tedesco Handelsblatt, il membro del board della Bce, Joerg Asmussen, ha detto chiaro e tondo che un accordo sul salvataggio della piccola isola dovrà essere trovato entro settimane, sottolineando «gli alti costi politici e finanziari di una possibile inazione nei confronti dell’economia di Cipro» e il fatto che «la possibile scelta di congelare ogni decisione dopo le elezioni tedesche in settembre non funzionerebbe». Per Asmussen, «non devono esserci dubbi rispetto al fatto che senza un aiuto esterno, Cipro scivolerebbe nel default, per questo mi attendo che il programma per Nicosia sarà posto in essere entro la fine di marzo». Sottolineando come il pacchetto di aiuti non dovrà essere monodirezionale – ovvero, l’Ue dà e Cipro prende -, ma che Nicosia dovrà sottostare a dure condizioni per ottenere i fondi – tra cui limitare l’incidenza del settore finanziario e introdurre leggi per la trasparenza bancaria -, Asmussen ha parlato alla vigilia di un delicato vertice dei ministri delle Finanze dell’eurozona sull’argomento, certo che dalla Germania arriverà più di un ostacolo, stante lo status di paradiso fiscale degli oligarchi russi che Cipro rappresenta nella testa del governo di Berlino.



E non a caso una delle proposte sul tavolo, rilanciata dal Financial Times, sarebbe proprio basata su un compromesso in grado di rendere digeribile la pillola ai tedeschi: un atto non convenzionale che porti a perdite per i depositari in banche non assicurate e per gli investitori in obbligazioni cipriote, tali da tagliare il debito dei due terzi. Difficile, quasi impossibile, che passi così com’è.



Uno swap in stile greco? Se prima questa opzione è stata scartata a priori dal Commissario Ue, Olli Rehn, oggi non può più essere ignorata, anche perché solo dieci giorni fa il governatore della Bce, Mario Draghi, aveva ricordato come un eventuale fallimento di istituti ciprioti legato a un non intervento d’aiuto, porrebbe rischi sistemici per l’intera eurozona. E attenzione, perché la portata sistemica di cui parla il capo dell’Eurotower è reale, anche per una questione più geopolitica che meramente finanziaria.

Lasciare fallire Cipro, infatti, innescherebbe senza il minimo dubbio una dura reazione della Russia, la quale zitta zitta sta già attrezzandosi a un mondo senza dollaro. Anzi, a un mondo post-dollaro, poiché a detta dell’entourage di Putin sarà un collasso finanziario innescato da Wall Street a portarci in un nuova dimensione di mercato.



Non è un caso che negli ultimi dieci anni, la Russia abbia aumentato le sue riserve auree di qualcosa come 570 tonnellate metriche, stando a dati del Fmi. Putin lo ha detto chiaramente: «L’America sta sabotando l’economia globale abusando del monopolio del dollaro», mentre sempre dal Cremlino si fa notare come «più una nazione dispone di oro, più avrà sovranità garantita in caso di un cataclisma legato al dollaro o ad altre monete di riserva, come euro o sterlina». E attenzione, perché questa mossa non significa solo tramutare il peso strategico del petrolio e del gas in hard assets come l’oro, ma anche che quella innescata negli anni da Putin è una vera e propria strategia di lungo periodo: quando la Russia andò in default nel 1998, ci volevano 28 barili di petrolio per comprare un’oncia d’oro, quando Putin salì al potere si era già scesi a 11,5 barili e quando nel 2005 il livello scese ancora a 6,5 barili (la metà del valore attuale), Putin diede l’ordine alla Banca centrale di cominciare a comprare oro senza remore.

Continuerà a comprare? Una risposta l’ha data, seppur in maniera molto evasiva, il vice-premier russo, Alexei Ulyukayev, parlando allo scorso Forum di Davos: «Il livello dei nostri acquisti sarà determinato dal mercato, non ho intenzione di discutere l’argomento». Insomma, la Russia compra, così come la Cina, l’India e il Messico, la Germania rimpatria l’oro dalla Fed e dalla Banca centrale francese: cosa sanno che noi non sappiamo ancora? C’è poi un’altra questione legata al caso cipriota e che ha a che fare con l’esposizione e l’interconnessione della Grecia con l’isola, un mix esplosivo visto che nonostante un sacco di belle parole, ad Atene le cose stanno andando di male in peggio.

Dopo aver dovuto ammettere che il tanto vantato avanzo primario era soltanto l’ennesimo gioco delle tre carte, ottenuto nascondendo sotto il tappeto i mancati pagamenti, ora il governo ellenico rischia davvero di perdere del tutto il controllo finanziario e di deficit del Paese, come confermano i dati del ministero delle Finanze. Nonostante l’aumento delle tasse imposto dai creditori internazionali come parte del pacchetto di austerity vincolato agli aiuti, gli introiti fiscali sono crollati del tutto in gennaio: un -16% dall’anno precedente, una perdita per le casse dell’erario di qualcosa come 775 milioni di euro in un solo mese. Quindi, il governo ha fallito e non di poco il suo target fiscale per il primo mese del nuovo anno, fermandosi solo a 4,05 miliardi di euro invece dell’obiettivo di 4,36 miliardi, un shortfall di previsione di 300 milioni di euro in un solo mese.

Di questo passo, non solo tutti gli obiettivi di bilancio salteranno, ma il calo delle entrate pare destinato solo a peggiorare, nei fatti anticipando il completo collasso dell’economia e società greca. Insomma, la geniale ricetta della troika ha portato a un aumento dell’evasione e dell’elusione fiscale, nei fatti atti di sopravvivenza stante gli aumenti folli dell’imposizione, tra cui quella sull’Iva, gli immobili (raddoppiati) e il reddito.

Insomma, conoscendo la visione ampia dell’analisi di Mario Draghi (non ha lavorato a Goldman Sachs per caso) e valutando con la serietà che merita la politica russa di autarchia aurea – oltre al ricatto energetico sempre pronto ad essere esercitato -, il rischio sistemico legato alla crisi di Cipro esiste e il domino rispetto alla già agonizzante situazione greca non deve farci stare tranquilli. Tanto più che venerdì scorso la terza giornata di repayment da parte della banche di quanto preso a prestito per 3 anni all’1% dalla Bce nelle aste Ltro, ha inviato un altro segnale di debolezza preoccupante.

Gli istituti europei hanno infatti ridato all’Eurotower 5 miliardi di euro, dopo i 137 del primo venerdì e i 3 del secondo. Insomma, siamo a 146 miliardi di restituzione, a fronte di 873 miliardi ancora in pancia alle banche o persi nell’iperuranio di operazioni repo, derivati e carry trade sull’obbligazionario sovrano. Ormai, le aspettative sul breve degli analisti parlano di un di un “corridoio di pagamento” tra 0 e 5 miliardi come aspettativa base settimanale, anche se qualcuno si aspetta un altro pagamento almeno a doppia cifra per la fine di febbraio, come segnale di salute da inviare ai mercati che le banche starebbero concordando tra loro. Una cosa, però, è essere in salute, un’altra falsificare le cartelle cliniche come continua a fare la Grecia.