L’ipotesi che, fino a pochi giorni fa, rappresentava una semplice indiscrezione di stampa, ha assunto concretezza. Il Consiglio di gestione di Bpm ha dato il via libera a tutte le analisi e gli approfondimenti volti a innescare il processo che porterà l’istituto a diventare una Spa a tutti gli effetti. Ai dipendenti saranno riservati cinque tra gli undici posti del nuovo Cds, mentre è allo studio la creazione di una fondazione che, oltre ad esprimere parte del management riservato ai lavoratori, garantirebbe a questi (ma anche ai pensionati della banca) e alle loro famiglie alcuni servizi socio-assistenziali e incentivi alla formazione scolastica come le borse di studio. Claudio Borghi Aquilini, professore di Economia degli intermediari finanziari presso l’Università cattolica di Milano, ci spiega cosa cambierà in seguito alla trasformazione.
Come valuta l’operazione?
Non è di certo la forma societaria che decreta il successo o l’insuccesso di un’impresa, ma il prodotto che fornisce e il modo in cui viene gestita. Per intenderci, ci sono molte Bcc che, pur non essendo Spa, vanno benissimo. Allo stesso modo, non mi risulta che le ben note coop rosse dell’Emilia Romagna abbiano mai avuto sfortuna per il semplice fatto di essere cooperative.
Quindi?
La popolare di Milano è un clamoroso caso di dis-management: la struttura operativa ha contribuito al danno e alla malagestione della banca. Non dimentichiamo che Bpm è stata l’unica banca che, assieme a Mps, ha acquistato dei Tremonti bond. E non si acquistano titoli di questo tipo, essendo estremamente onerosi, a meno che se non si abbia il timore di essere sull’orlo del collasso. Del resto, sappiamo che quasi tutta l’impostazione del management e delle scelte dell’istituto sono state assunte negli ultimi anni quasi esclusivamente sulla base degli equilibri sindacali. L’idea di lavorare bene era decisamente secondaria rispetto alla spartizione dei vari interessi.
Quali sono, allora, le ragioni del progetto?
Le Borse, anzitutto: quando le popolari si trasformano in Spa decidono di premiarle perché, a quel punto, diventano contendibili sul mercato. Chi vuole comandare, infatti, non deve fare altro che acquisire il maggior numero di azioni ed esprimere la dirigenza. Resta il fatto che, sul caso specifico, ho dei forti dubbi che si raggiungerà l’obiettivo: non mi pare che in questa fase la gente si stracci le vesti per acquistare azioni di banche. L’altra ragione consiste nel tentativo di recuperare credibilità. Si cerca di passare da una situazione confusa a una dove esista un azionariato. Resta il fatto che tutto dipenderà da chi, effettivamente, diventerà azionista della banca. Va da sé che c’è una bella differenza se la banca viene acquistata da Deutsche Bank o da un truffatore…
Chi comanda, in genere, in una popolare?
Ogni persona vale un voto. A prescindere dal pacchetto di azioni di cui dispone. La banca popolare, di fatto, è governata dalla lista, costituita, in genere, da azionisti o dipendenti organizzati in sindacati, che riesce a eleggere più voti.
Cosa cambia per i correntisti con la modifica societaria?
Assolutamente nulla. Resta tutto come prima.
E per le imprese del territorio cui l’azione delle popolari dovrebbe essere particolarmente vocata?
Anche in tal caso nulla. Per il semplice fatto che non mi risulta che la banca sia mai stata particolarmente benefica nei loro confronti. Anzi, piuttosto sono stati erogati soldi che non sarebbero dovuti essere prestati.
Si è parlato di compartecipazione dei dipendenti ai risultati, di borse di studio e altri benefit che preservino la mutualità.
Si tratta di specchietti per le allodole. La banca ha preso atto di aver fallito e, adesso, è costretta a dimostrare di essere seriamente intenzionata a cambiar pelle.
(Paolo Nessi)