Silvio Berlusconi dice: “Pagare una tangente all’estero è un fenomeno di necessità. Se non vogliamo più pagarle, benissimo, ma dobbiamo sapere che poi non possiamo più competere all’estero. Siamo stati autolesionisti. Nessuno tratterà più né con l’Eni, né con l’Enel, né con Finmeccanica. La tangente è un fenomeno che esiste ed è inutile ignorare la realtà”. Ha ragione o ha torto? Vuol solo difendere un malcostume – come ha subito ringhiato l’opinione pubblica, vasta, che lo avversa e lo considera, come Marco Travaglio, “un genio del male” – o parla con la concretezza del grande imprenditore che certamente è stato?



Una risposta univoca non c’è. Forse quella più vera – che peraltro sembra attagliarsi perfettamente all’ultima storiaccia della Finmeccanica, con il suo ex-capo Giuseppe Orsi appena arrestato per corruzione internazionale – sta a metà: è verissimo che senza pagare all’estero “commissioni” che sono, in realtà, semplici tangenti, in molti paesi e in molti settori non si riuscirebbe a vendere più nulla. Ma è anche vero che, con questa scusa, alcune aziende hanno fatto uscire dall’Italia fondi neri che in parte o in tutto sono poi stati fatti rientrare nel nostro Paese per “steccare” in realtà dei beneficiari finali italianissimi, che con il business finanziato all’estero con quei soldi non c’entravano nulla. Ed è in fondo questa l’ipotesi di reato grave, quella su cui indagano i pm che hanno chiesto e ottenuto l’arresto di Orsi, che cioè di quei 51 milioni di dollari pagati in India per vendere 12 elicotteri Agusta almeno 10 (ma forse 20) siano tornati in Italia e abbiano unto le ruote della Lega Nord.



Secondo alcuni dettagli dell’inchiesta – che, come sempre in questi casi, finisce pari-pari sui giornali in fase istruttoria (e in passato spesso è accaduto che simili indiscrezioni venissero poi smontate nel dibattimento) -, i pm avrebbero in mano le prove di questa “tangente estera con elastico” versata dall’Agusta, prove addirittura individuate dagli uffici di controllo interno della Finmeccanica. In effetti, questi uffici avevano cercato di capire a quali effettive prestazioni fossero state finalizzate le due consulenze pagate dall’Agusta in India in concomitanza con il maxi-contratto di vendita dei 12 velivoli, e l’azienda elicotteristica aveva risposto evasivamente, tanto che gli ispettori l’avevano, per iscritto, accusata di “reticenza”. Orsi, l’imputato numero uno, ha detto tramite il suo legale di “aver solo portato avanti un’attività per il bene dell’azienda”.



Giorno per giorno apprenderemo dai giornali i dettagli delle accuse – assai meno particolareggiati saranno quelli della difesa, ma è un gioco ormai noto e immodificabile – e quindi è inutile pensare che il quadro delle informazioni sia oggi cristallizzato. Certo è che la madre di tutti i sospetti – in questo caso, come nel caso della Saipem – è un reato quasi sempre indimostrabile: la corruzione internazionale. Tanto che paesi come la Svizzera e la Francia conservano nei loro ordinamenti misure di tutela di una particolare riservatezza contabile sui business internazionali di chi, operando nei grandi appalti e nei settori strategici – dall’energia agli armamenti – deve poter competere ad armi pari anche con realtà locali dalla diversissima “civiltà” giuridica, dove non si può non pagare “provvigioni” d’intermediazione anche molto salate.

“In Svizzera”, spiega un finanziere specializzato nell’import-export di prodotti strategici, “c’è addirittura un ufficio federale, collegato all’amministrazione delle imposte, che determina la percentuale di commissione pagabile dalle aziende elvetiche in determinati paesi e per determinate vendite. Per fare un esempio, per l’Arabia Saudita, la Svizzera consente che siano pagate provvigioni pari al 10% del valore della merce esportata”. Che poi, nell’ambito di queste prassi, possano annidarsi anche dei “rigurgiti” di denaro verso gli stessi soggetti pagatori (e i loro beneficiari) è ovviamente possibile, e va perseguito: è appunto il caso delle accuse a Orsi

Ma il dovere di verificare simili ipotesi giustifica il prezzo di buttare via con l’acqua sporca anche il bambino? Distruggere la credibilità internazionale di un’azienda prima di essere certi dei fatti? Sul caso Finmeccanica, poi – con grottesca concomitanza – proprio pochi giorni fa la Procura di Roma ha archiviato l’inchiesta contro Pierfrancesco Guarguaglini, predecessore al vertice di Giuseppe Orsi, dopo averlo indagato per tredici mesi per presunte false fatturazioni, sempre alla ricerca di stecche e tangenti, con un’inchiesta che ha indotto l’azionista-governo dapprima a dimezzare i poteri del manager e poi indurlo alle dimissioni.

Ed è qui che si torna all’invettiva di Berlusconi che, come sempre, dividerà il Paese – o meglio, gli addetti ai lavori – tra due schiere: i detrattori e i fan. Senza “mazzette” in certi paesi non si vende uno spillo: l’Italia può permettersi di rinunciare a questi mercati? Ma manager incaricati di guidare colossi che devono vivere anche di questi espedienti immorali, possono poi permettere che al loro interno s’insinuino anche interessi privati a volte giganteschi? Assolutamente no. E chi sbaglia, deve pagare: anzi, dovrebbe pagare due volte perché sono questi interessi privati, nei fatti, a pregiudicare la “sostenibilità” di quelle pratiche che pur essendo anti-etiche, probabilmente, non verrebbero sanzionate neanche da noi, se fossero davvero mosse soltanto dalla “ragion di Stato”.