Undici contro uno. Una lotta impari, quella condotta dai paesi europei che hanno accettato la Tobin Tax (Italia, Germania, Francia, Spagna, Belgio, Austria, Slovenia, Estonia, Slovacchia, Grecia e Portogallo) contro il Regno Unito. Che, ovviamente, di tassare le proprie transazioni finanziarie, non ne vuole sapere. Ma un espediente della Commissione europea potrebbe aggirare l’ostacolo: saranno tassate le transazioni relative agli strumenti finanziari emessi dalla City negli undici Stati che, in queste ore, stanno vagliando la proposta di Bruxelles. Giuseppe Pennisi, economista, ci spiega perché il progetto non sta in piedi.



Cosa ne pensa, anzitutto, della Tobin Tax?

Precisiamo, anzitutto, che venne ripudiata dallo stesso Tobin in un celebre saggio del ’91 pubblicato dalla Banca Mondiale. Disse che era un rimedio estremo, da prendersi in condizioni particolarissime e, preferibilmente, da un solo Stato. All’imposta, inoltre, sono legate suggestioni del tutto immotivate. Si pensa che contribuisca a calmierare le distorsioni dei mercati, disincentivando le operazioni spregiudicate quando, in realtà, è un modo surrettizio per tassare le rendite finanziarie. E per fare cassa.



Non crede che possa contribuire a far diminuire le transazioni speculative?

No, al contrario. Come è noto, la Tobin sortisce effetti profondamente distorsivi, invogliando gli investitori a trasferire altrove i flussi di capitale.

Secondo lei, come si dovrebbe comportare l’Unione europea?

Nel quadro di un riordino della tassazione, buon senso vorrebbe che il Consiglio europeo e i ministri delle Finanze europee preparassero un regolamento sulle rendite finanziarie uniforme per tutti i 27 membri dell’Unione (o almeno per i 17 dell’Eurozona), e che i Parlamenti nazionali ratificassero tale regolamento. Oggi, invece, ogni Paese, tra quelli che applicano la tassazione sulle transazioni finanziarie, ha previsto aliquote, regole e parametri diversi. Per quanto ci riguarda, l’unico risultato raggiunto dalla Tobin consiste nell’aver distolto gli investitori stranieri dal venire in Italia.



Come valuta il progetto europeo di estendere la tassazione ai titoli di Stato scambiati sui mercati secondari?

Si tratterebbe di pura follia. I singoli paesi ne risulterebbero danneggiati. In particolare, si produrrebbero serie conseguenze per quelli con elevati debiti pubblici che si troverebbero, a quel punto, a doverli finanziarie a tassi ancora più elevati.

Cosa succede, invece, se il progetto di tassare i titoli emessi da Londra in altri Paesi va in porto?

Anzitutto, la proposta mi pare, a prima vista, contraria a qualsiasi principio di diritto internazionale. Per tassare le transazioni finanziarie e i titoli di Londra ci vorrebbe, come minimo, il via libera di Westminster. Ammesso e non concesso che l’ipotesi europea si concretizzi, la Gran Bretagna uscirebbe immediatamente dall’Unione europea. Il che, innescherebbe una pericolosissima reazione a catena. 

Ovvero?

Tanto per cominciare, a quel punto l’uscita della Grecia dell’euro diventerebbe altamente probabile. Altri paesi, inoltre, potrebbero pensare di seguire l’esempio inglese. Ma la cosa peggiore in assoluto consisterebbe nel trovarci, all’improvviso, privi del nostro principale mercato finanziario. Esperimenti quali l’Euroborsa, infatti, rispetto a Wall Street, Tokio, od Hong Kong, sono del tutto irrisori e non dobbiamo dimenticare che, quando Londra si prende un “raffreddore”, le altre Piazze si prendono la polmonite.

Bruxelles, forse, non è consapevole di tutto ciò?

Credo di sì. E che si tratti di un semplice annuncio. Volto, in gran parte, a far contenti i socialdemocratici del Parlamento europeo. 

 

(Paolo Nessi)

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