Da circa tre settimane, quando è cominciata la fase “calda” della campagna elettorale, l’Italia è entrata in una fase che ricorda uno stato di fibrillazione e di convulsione. Se più di venti anni fa venne battezzata “tangentopoli” l’inchiesta che cancellò la “prima Repubblica”, oggi, di fronte a una sequenza di arresti, di avvisi di garanzia e di nuove inchieste, si parla apertamente di una “seconda tangentopoli”, che con tutta probabilità liquiderà o modificherà la cosiddetta “seconda Repubblica”.
In questa fine di febbraio si accavallano e si intrecciano due problemi: il primo riguarda il sistema politico, che sembra destinato a un periodo di grave instabilità e ingovernabilità, nonostante le imminenti elezioni; il secondo investe il sistema produttivo del Paese, soprattutto quello delle ultime grandi aziende in mano allo Stato, mentre la crisi e la recessione (entrata ormai nel sesto anno consecutivo) stanno decimando la struttura delle piccole e medie aziende.
Quando esplose la prima “tangentopoli”, nell’incrocio tra politica e affari, l’Italia bruciò le tappe di una privatizzazione di gran parte del suo apparato pubblico produttivo, senza varare alcuna legge di liberalizzazione. In definitiva, la grande stagione delle privatizzazioni si risolse, in quasi tutte le occasioni, in un passaggio dal monopolio dello Stato a oligopoli privati.
Furono liquidati grandi enti di Stato come Iri e Efim; venne ridimensionato il ruolo dello Stato nell’Eni, fondato da Enrico Mattei; passarono ai privati pezzi importanti di produzione e la gestione di grandi servizi. L’intero processo di privatizzazione non risolse i problemi delle casse dello Stato, lasciando uno strascico di polemiche che si trascina ancora adesso.
Lo Stato incassò circa 200mila miliardi di lire, pagando alle banche d’affari anglosassoni, che curarono il complicato passaggio dal pubblico al privato, una commissione che si valuta tra l’uno e l’1,7 percento dell’intero incasso.
Se l’operazione di privatizzazione, senza alcuna liberalizzazione, fosse stata presa per abbassare in modo consistente il debito pubblico, il risultato non fu affatto centrato, perché il debito si ridusse solo dell’8 percento.
Esaminando dopo anni quella discutibile operazione, partita anche dalle inchieste dei magistrati, vale la pena di riportare tre giudizi. Il primo è quello della Corte dei Conti: «Si evidenzia una serie di importanti criticità, che vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractor e organismi di consulenza al non sempre immediato impegno dei proventi nella riduzione del debito».
Meno burocratico e più immediato, il giudizio di un grande economista come Giulio Sapelli: «Dobbiamo finalmente dire a chiare lettere che la mancata crescita di oggi è frutto delle disgraziate privatizzazioni degli anni Novanta. Privatizzazioni fatte per gli amici degli amici e “all’Argentina”, ossia per togliere dall’agone della concorrenza internazionale gran parte dell’industria italiana. Di ciò non abbiamo mai chiesto conto a nessuno, intellettualmente e politicamente intendo, anzi, su questa rapina si sono costruite fortune politiche che durano sino a oggi».
Il terzo giudizio viene dalla drammatica testimonianza di Lorenzo Necci, morto nel 2006. Necci fu un grande manager, presidente di Enimont, poi presidente e amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato. Il 15 settembre del 1996 fu messo in carcere e poi accusato di 42 reati. Fu letteralmente “incenerito”… per poi essere assolto 42 volte. Che cosa diceva Necci di quella concitata stagione di “privatizzazioni senza liberalizzazioni”? Raccolse in un libro-intervista le sue impressioni e le sue valutazioni, coniando alla fine un’immagine secca e impietosa: “L’Italia svenduta”.
C’è una strana similitudine tra quel contesto degli anni Novanta e questo momento storico. Allora, come oggi, si parlava di corruzione, di “intreccio perverso” tra politica e affari, di necessità di fare cassa, di inevitabilità di dismissioni delle grandi imprese statali per collocarle poi sul mercato. Negli anni Novanta, la magistratura voleva “rivoltare l’Italia” come un calzino per liberarla dalla corruzione, i “tecnici” dell’epoca (Ciampi, Amato) e i nuovi politici volevano “più mercato” e un’Italia più moderna. Partì la magistratura, naturalmente in perfetta buona fede e ossequiosa nei confronti della legge, e seguirono i politici della cosiddetta “seconda Repubblica” per arrivare alla situazione attuale.
Oggi la magistratura è ripartita. Più della metà delle aziende quotate in Borsa (il conto è stato fatto da “Milano Finanza”) è bloccata o sotto il cono d’ombra della magistratura. Mentre si assiste sbalorditi al contenzioso intorno all’Ilva di Taranto tra posizioni contrastanti, che coinvolgono Governo, magistrati e Corte costituzionale, il Monte dei Paschi di Siena (terzo gruppo bancario italiano) è, secondo quanto scrivono i magistrati, una banca che era in mano a una “cupola”. Nello stesso tempo, le due ultime grandi aziende di Stato superstiti, l’Eni e Finmeccanica, vengono “promosse” al rango, sempre secondo le indagini dei giudici, a “comitati di affari” o a “sistemi di distribuzione di tangenti” al sistema politico italiano.
Un osservatore internazionale dotato di un minimo di razionalità potrebbe dedurre che in Italia si sta avverando una combinazione perfetta per “fare affari”, ottimi affari: da un lato una confusa e complicata situazione politica, dall’altro lato una inquietante conduzione di grandi imprese che le porterebbero a perdere reputazione internazionale e quindi valore sul mercato.
Sarà per caso o per avversa fortuna, ma l’affare del Monte dei Paschi di Siena sta diventando in Europa peggiore della “nazionalizzazione notturna”, fatta qualche anno fa dal governo di Londra, di otto banche inglesi in stato preagonico; peggiore dei titoli tossici e dei derivati, transitati e ancora presenti, nelle casseforti delle grandi banche tedesche e francesi. Sarà sempre per caso o per avversa fortuna, ma ormai il reato di corruzione internazionale sta soppiantando qualsiasi altra fattispecie giuridica. Intanto gli algerini fanno capire che gli appalti assegnati alla Saipem (controllata Eni) saranno bloccati e gli indiani “fanno gli indiani”: congelano i pagamenti per gli elicotteri venduti dall’Italia e strizzano l’occhio ai francesi, che si presentano “al mercato” con contratti blindati dalla ragione di stato, tra ministri plenipotenziari e interventi della loro “intelligence”, come sempre accade quando si vende e si compra materiale strategico.
In questi giorni, non pare che sia ancorato al largo di Civitavecchia lo yacht reale inglese “Britannia”. Non si profilano all’orizzonte complicati e ingarbugliati “complotti” internazionali. Non si prevedono neppure riunioni del “Club Bilderberg” e neppure della Trilateral.
Sono in corso solo indagini dalla procura di Busto Arsizio fino a quella di Trani. che dipingono un’Italia di ladroni, tangentari, incompetenti. Anche se tutto è ancora da dimostrare, l’aria che si respira è che negli anni Novanta si è attuata una prima grande “svendita”, ma adesso siamo arrivati proprio alla liquidazione finale.