Al termine quasi del G20 di Mosca, un diplomatico americano avrebbe pronunciato una battutaccia ma “quanto mai vera” (come avrebbe detto Tino Anselmi quando le riunioni degli organi di governo della DC diventavano litigiose ed esplodeva con frasi spontanee del suo “sangue romagnolo” che allora non si pronunciavano di fronte a signore): “L’unico G davvero utile è quello di una tipologia di slip”. Riferimento a un “intimo” per uomo molto mini e molto attillato che ha un mercato enorme tra chi fa sport. La frase è, però, ingenerosa.
A Mosca, lo stuolo di Ministri, funzionari, barracuda-esperti-al-seguito, giornalisti (sempre di meno a ragione sia delle condizioni finanziarie dell’editoria, sia delle poche e rare notizie di rilievo) hanno concluso poco e nulla; qualche ritocco al comunicato già redatto dai 20 “sherpas” e al centinaio di collaboratori di questi ultimi per affermare l’ovvio: le “guerre valutarie” non esistono in un sistema internazionale basato essenzialmente sulla libertà delle transazioni perché sono le politiche economiche nazionali a determinare i cambi ed è, quindi, oltremodo difficile manipolare questi ultimi.
Comunque, chi ha sfidato il freddo russo, ha avuto il modo di meglio leggere alcuni aspetti molto più importanti della conclamata “pace valutaria” tra il Giappone e gli altri principali attori sulla scena economica mondiale, nonché le proclamate “strette anti-elusione” per le multinazionali. A Mosca, infatti, è apparso a tutto tondo come l’Unione europea (e in particolare l’Eurozona) sia il “grande malato” per il quale , però, nessuno (né gli europei, né gli altri) sembra in grado di fare una prognosi e trovare una terapia.
L’ouverture (per così dire) del G20 è stato il rapporto dell’Eurostat diramato il 14 febbraio: letto con lenti internazionali fornisce un quadro molto più cupo di quello che appare con occhiali italiani (che mettono in risalto la prosecuzione e l’approfondirsi della recessione nel nostro Paese). In effetti, anche la Francia sta scivolando in recessione e si sta allontanando dagli obiettivi di finanza pubblica che lo stesso Governo in carica si era dato quando meno di un anno fa si è insediato. Il mal sottile sta prendendo la Germania e anche il piccolo gruppo di paesi nordici che ne sembravano immuni.
Com’è stato scritto su queste pagine il 18 aprile 2012, siamo in una “perniciosa balance sheets recession, ossia una recessione innescata da un eccesso di indebitamento che ha causato un mutamento di paradigma a individui, famiglie, imprese e servizi finanziari – da un obiettivo di massimizzazione dell’utile si è passati a quello della minimizzazione dell’indebitamento. Ci vorranno mesi per comprendere come uscire dalla balance sheets recession: negli Usa – lo documenta un lavoro di Richard Koo – ci sono voluti trent’anni, il Giappone ci sta tentando da almeno quindici”.
Nessuno pare sapere come uscirne. L’ipotesi, delineata da alcuni economisti del Pd, di farlo riducendo “gli squilibri esterni” (ossia essenzialmente facendo sì che la Germania assorba più prodotti e servizi dei paesi maggiormente nei guai) viene fatta a pezzi da Alan Tayor della Università della Virginia – il quale non sa cosa vuole dire la sigla Pd – nel Cepr Discussion Paper No. DP9255.
Un parallelo Discussion Paper del Center for European Policy Research (il No. DP9229), redatto da una squadra di economisti dell’Università di Lussemburgo, lancia un altro avvertimento: nonostante la moneta unica europea appaia “forte” per l’apprezzamento rispetto al valore internazionale che aveva al suo lancio, il primo gennaio 1999, “l’euro è a rischio” a ragione di una recessione che mostra come “il Re sia nudo”.
Nonostante i numerosi annunci nulla è stato fatto per mutualizzare parte del debito e rafforzare gli intermediari finanziari (eurobonds, Omt – Outright Monetary Transactions, banking union); ancora meno è stato fatto in materia di politiche di bilancio e di strategia dell’economia reale. Ove ciò non bastasse, è nell’aria uno scontro tra Parlamento europeo, da un lato, e Consiglio europeo e Commissione europea, dall’altro, non solo sul bilancio delle istituzioni europee, ma sul succo delle politiche. Lo prova il documento Why Austerithy Should Be Delayed (Perché occorre ritardare le politiche di austerità) preparato da tre istituti di ricerca per conto del Gruppo socialista e democratico del Parlamento e presentato in questi giorni in vari paesi (in Italia, in Banca d’Italia e al Tesoro).
In seno al G20, l’Ue e l’Eurozona appaiono come un continente di vecchietti litigiosi incapaci di rinnovarsi. O di lasciare il posto a un nuovo più giovane e più dinamico gruppo dirigente in grado di affrontare i nodi di fondo che bloccano l’uscita da una crisi sempre più grave.