Con il prezzo della benzina negli Usa a quasi 4 dollari per gallone, cominciano a echeggiare sui media i soliti peana: colpa della speculazione, colpa degli hedge funds. Ora, come sapete e come ho scritto più volte su queste pagine, ritengo necessario porre un drastico limite all’utilizzo dei contratti futures a scopo meramente speculativo e mi batto da sempre per imporre l’obbligo di consegna del bene che si sta trattando, ma questa volta temo che si utilizzi il capro espiatorio del trader avido per sviare l’attenzione dal vero responsabile: il governo Usa e, soprattutto, la politica monetaria della Fed.
Interpellato dalla Reuters, infatti, un taxista newyorchese ha così esplicitato il suo pensiero: «Se il governo imponesse a Wall Street di smettere di trattare il petrolio, la benzina costerebbe un dollaro al gallone». Vero? In parte. Il problema è che, amici miei, dove pensate che le istituzioni finanziarie possano investire gli 85 miliardi mensili di liquidità immessi nel sistema dalla Fed? Solo nei titoli, già furiosamente sopravvalutati (quando arriverà la correzione dei corsi saranno dolori) e con il trading più alto sui multipli di ratio price/earning di quanto non fosse nel 2007, quando tutto era ancora roseo? No, quel denaro facile e copioso si riversa per forza di cose anche sulle commodities, su gas e petrolio, questo nonostante le continue minacce della Cme di spedire i margini al 100% sul comparto energetico.
È lo stesso meccanismo perverso di doping del mercato che ha spedito il Russell 2000 ai massimi di tutti i tempi e appunto il prezzo del gas al suo record: l’impero del liberismo di Stato. Si chiama inflazione, la quale non significa aumento dei prezzi, ma aumento dell’ammontare di moneta nel sistema, il quale diluisce il potere di acquisto ma anche il valore, portando come conseguenza l’aumento dei prezzi. Quindi, se l’americano medio quest’anno spenderà circa 3000 dollari in benzina, la colpa non è degli hedge funds brutti e cattivi, ma della Fed, la quale arma la mano non solo all’inflazione ma anche ai fondi stessi, i quali per lavoro non fanno i frati francescani ma soldi dai soldi, quindi diversificano il portafoglio di investimento (altrimenti Apple sarebbe già a oltre 1000 dollari per azione), entrando anche nel mercato futures del comparto energetico e tenendo Wall Street ai massimi, l’unica cosa che interessa davvero a Fed e governo, alla faccia dei fondamentali macro dell’economia Usa.
Perché vi dico questo? Semplice, perché mi sembra un buon viatico per capire meglio le seguenti parole di Mario Draghi, pronunciate a margine del G20 di Mosca, commentando la situazione di crisi nell’Eurozona: «Non si può creare crescita gonfiando i bilanci e questo anche per ragioni di equità sociale». Per il governatore della Bce, in Europa «la situazione si sta normalizzando, ma ci sono ancora fattori di fragilità che non ci permettono di dire che è tutto in ordine. La crisi è stata originata da una mancanza di finanziamenti. Bisogna trovare la strada per avere più credito per l’economia reale, creando lavoro e producendo crescita». Sempre a detta di Draghi, bisogna dare «la priorità al consolidamento fiscale e al pareggio di bilancio. Crediamo che il primo fattore di crescita nell’Eurozona siano le riforme strutturali e l’aumento della domanda che arriva dal settore privato».
Insomma, non l’austerità cieca unita a politiche che portano unicamente all’aumento del debito, come ci insegna la fallimentare esperienza della Grecia (vero, cari capoccioni ora redenti del Fmi?). La quale, pur pesando come economia per meno del 2% del Pil dell’Unione europea, è ben lungi dall’essere stata salvata, visto che a tre anni dell’esplosione della crisi, le sue principali banche sono ancora tutte insolventi e la sua economia si è contratta di un 20%, lo stesso tipo di collasso che toccò all’Argentina quando saltò l’intero sistema finanziario. Peccato che le ricette pur uscire da quello stato di crisi siano state un po’ diverse e ci ritroviamo, nel febbraio del 2013, con l’indice di fiducia dei consumatori greci che nel quarto trimestre del 2012 è sceso a 35 punti, il livello più basso delle 58 nazioni monitorate e 11 punti meno dello stesso periodo del 2011. Ma stando allo stesso sondaggio, 4 greci su 10 non hanno reddito disponibile dopo aver coperto le necessità essenziali, il tasso più alto mai registrato nel Paese ma anche nell’intera area euro nel periodo ottobre-dicembre. Nello stesso periodo del 2011, il tasso era del 34%, mentre nel 2010 del 25%.
Ed ecco innescarsi la spirale del debito privato, visto che per far fronte alle spese il 31% dei greci utilizza carte di credito o di debito, mentre il 22% mette mano ai risparmi. Di più, il 77% dei greci ha tagliato tutte le spese voluttuarie per divertimenti fuori casa, il 67% compra solo prodotti a basso costo e addirittura il 54% ha tagliato le spese per benzina ed elettricità. E quest’ultimo dato è confermato dall’aumento esponenziale di furti di energia tramite allacciamenti abusivi, soprattutto da esercizi commerciali, salito come volume di incidenza dai 10 milioni di euro del 2011 ai 40 dello scorso anno, stando a quanto confermato dall’Hellenic Electrical Distribution Network Operator. Ma ancora non basta. Stando all’ultimo report dell’Hellenic Statistic Authority, il settore delle costruzioni è in totale caduta libera: a novembre del 2012, il totale dell’attività era sceso del 66,6% anno su anno in termini di permessi edilizi, del 63,3% per quanto riguarda le superfici edificate e del 65,4% in termini di volumi. In totale, sono stati concessi solo 1.156 permessi per un totale di 197mila metri quadri e 706.900 metri cubi.
Insomma, la recessione più nera. E come sopravvivere, in un contesto simile? Nessuno paga più le tasse. La Financial Crimes Squad lo conferma, in un solo anno le multe per mancato pagamento dell’Iva o dei contributi sui salari sono salite del 51%, raggiungendo quota 35,3 milioni di euro contro i 23,3 del gennaio 2012. Insomma, un disastro totale, una nazione devastata nelle fondamenta, alla faccia dello swap che doveva risolvere tutti i guai. Ora, la mia domanda è semplice: se Ue, Bce, Fmi e parzialmente la Fed (visto che il QE 2 e 4 sono stati sostanzialmente salvataggi della banche europee) non sono riusciti insieme a risolvere un problema che pesa come il 2% del Pil dell’Unione, cosa potranno fare se toccasse – anzi, quando toccherà – a Spagna, Italia o peggio ancora la Francia? Eh già, perché nonostante le Borse abbiano corso nell’ultimo periodo, l’Ibex spagnolo a più 18% dall’inizio dell’anno, stiamo ancora parlando di un sistema bancario europeo che è soggetto a una ratio di leva di 26:1, solo quattro punti da quel 30:1 che costò la ghirba a Lehman Brothers.
Prendiamo la Spagna, le cui banche siedono tutt’oggi su una montagna di immondizia che corrisponde al 56% di tutti i mutui immobiliari del Paese, ma che fino al 2010 erano totalmente non regolamentate! E cosa si inventò il governo spagnolo per mettere mano alla questione? Fece fondere tra loro alcune banche, le casse di risparmio per trasformare sette debolezze in una forza. Risultato? Niente, l’Ue ha dovuto pagare per ricapitalizzare il sistema bancario iberico, il quale ha incamerato e comprato Bonos: nei fatti, siamo al punto di partenza. Prendiamo, per esempio, la fallita e semi-nazionalizzata Bankia, il cui cds dal 26 luglio scorso – quando Draghi sfoderò il firewall obbligazionario – si è dimezzato, passando da oltre 1500 punti base, agli attuali circa 700. Bankia nasce nei fatti nel settembre 2010, quando il governo impone la fusione di sette cajas ormai in bancarotta: l’anno seguente non solo l’istituto presentò dei guadagni, ma addirittura pagò un dividendo. E nel 2012? Il 9 maggio Bankia chiede un prestito da 4,5 miliardi di euro, ma lo Stato spagnolo continua a definirla solvibile. Il 21 maggio arriva l’ok del governo, il quale acquisisce una quota del 45% dell’istituto, di fatto nazionalizzandolo. Due giorni dopo, magicamente, le esigenze di salvataggio di Bankia già salgono a 11 miliardi, che diventeranno 15 il giorno seguente, 24 maggio, e addirittura 19 miliardi il 25 maggio (con i profitti del 2011 che, non si sa come mai, vengono rivisti e passano da un attivo a una perdita di 4 miliardi di euro).
Il 27 dicembre, poi, forse sperando nello spirito natalizio, ecco che il fondo per i salvataggi spagnolo non solo annuncia che Bankia ha ancora un valore negativo di 4,2 miliardi, ma che avrà bisogno di altri 13,5 miliardi di capitale, situazione che portò il titolo di Bankia alla sospensione in Borsa del 2 gennaio. Scusate, ma come fa a essere credibile un governo che nel 2011 ancora riteneva Bankia solvibile, che le permetteva di pagare un dividendo nell’aprile 2012 e che dopo otto mesi ammette che la banca è totalmente insolvente? Quanto è credibile la compressione dello spread spagnolo, al netto della minaccia di Draghi? Come si giustifica, se dopo aver ingurgitato 19 miliardi di salvataggio, ancora oggi Bankia ha una valore negativo, tanto più che al netto dei nuovi 13,5 miliardi richieste il conto salirà alla cifra monstre di 31 miliardi di euro?
Insomma, l’unione di austerità fiscale e sociale, unita alla creazione di nuovo debito a pioggia per salvataggi bancari folli ci hanno portato alla situazione attuale, con l’aggravante che ora sta per aprirsi un periodo decisamente poco prevedibile a livello di eventi futuri. Non ci credete? Guardate questi due grafici, freschi freschi e che sintetizzano il trend di debito pubblico e della ratio debito/Pil della Spagna: siamo a un livello mai visto nel Paese da 100 anni, qualcosa come 400 milioni in più di debito al giorno nel 2012! E questo mentre il governo uccide il Paese con l’austerity fiscale!
Stiamo parlando, per l’anno scorso, di 146 miliardi di euro di aumento del debito, 14 punti di Pil che portando il totale a 882,3 miliardi e a una ratio debito/Pil dell’84%, ben oltre il 79% delle previsioni del governo e con prospettive di aumento ancora più marcato per l’anno in corso. La Spagna pagherà 38,7 miliardi di spese per interessi sul debito, un ammontare mai raggiunto e che supera del 33% quanto messo a budget dal governo: mi spiegate, con cifre macro tali, un deficit primario e crescita zero, come fa la Spagna a pagare un rendimento medio di solo il 4,1% sul suo debito? Solo grazie alla Bce, ma non si sa per quanto. Venerdì scorso, infatti, soltanto nove banche europee hanno usufruito delle finestra di repayment per il prestito Ltro della Bce, oltretutto per la modica cifra di 3,8 miliardi, in linea con il “corridoio” 0-5 miliardi delineato dagli analisti e lasciando ancora un conto aperto di 875 miliardi di euro.
Ora, se è vero come è vero che dal 27 febbraio sarà possibile ripagare anche la seconda tranche di Ltro, quella del mese di febbraio 2012, tocca ricordare che il 25 gennaio furono 278 le banche che ripagarono alla Bce 137,2 miliardi presi in prestito, venerdì scorso soltanto nove. Molti osservatori, tra cui Goldman Sachs, si dicono certi di un ammontare decisamente alto di repayment subito dopo il 27 febbraio, anche per mandare un segnale di salute ai mercati, ma, come già spiegato la scorsa settimana, Draghi teme l’effetto perverso su spread e aste della liberazione del collaterale posto a garanzia dalle banche per ottenere il prestito, ovvero bond sovrani italiani e spagnoli che torneranno nei bilanci degli istituti di credito, acquirenti quasi unici di debito italiano e iberico nelle ultime emissioni.
La Bce ha già annunciato operazioni di offsetting in caso di crisi di liquidità, ma per quanto potrà reggere il castello di carte delle minacce dell’Eurotower sui mercati? Poco, soprattutto se domenica e lunedì gli italiani non sceglieranno per il nuovo governo che il mercato, gli Usa e la Germania vogliono, nemmeno troppo velatamente, imporre loro. Attenzione, il mese di marzo potrebbe essere un incubo. E forse il mese in cui, tragicamente, il Re dell’austerity e del debito europeo si svelerà nudo agi occhi del mondo.