Nel 1985, quando gli Stati Uniti erano ancora un impero incontrastato, e non dimidiato come oggi, imposero nel vecchio Hotel Plaza di New York (prima che divenisse l’asettico residence che è oggi) la rivalutazione dello yen a un Giappone che era la versione industriale del turbocapitalismo finanziario di oggi. Sono passati circa trent’anni e oggi il Giappone stenta ancora a uscire dalla stagnazione che allora gli Usa gli imposero. E gli Usa, dal canto loro, cercano in tutti i modi di sostituire il keynesismo di guerra del vecchio Roosevelt con il keynesismo dello tsunami del tasso d’interesse tendente a zero e del battere moneta, alias dollaro, a manetta, come si dice in gergo, per abbassare il valore del dollaro sui mercati cambiali mondiali e favorire in tal modo le esportazioni Usa.
Piccola cosa, in verità: esse sono solo circa il 7-8 % del Prodotto interno lordo, mentre invece un dollaro svalutato aumenta il costo delle importazioni di un Paese che è il canestro della partita di basket dei beni e dei servizi che si gioca in tutto il mondo. Questo per dire che nella guerra valutaria gli Usa, a differenza di quello che dicono gli osservatori, non hanno tanto di mira l’arena del commercio mondiale, quanto invece quella del mercato interno e del costo del denaro, che vogliono rendere tendente allo zero per favorire le imprese nazionali.
E il Giappone è tutto diverso. Il ministro Abe, che ha vinto le elezioni secondo le tradizioni più alte del partito liberal-democratico nazionalista e riarmista, sottrae potere alla banca centrale, ne limita l’indipendenza, affinché stampi yen e compri divise estere (dollari ed euro) per rilanciare finalmente il Giappone nell’agone mondiale delle esportazioni. Naturalmente questo è fortemente legato al programma di armamenti che si vuol perseguire una volta modificata una Costituzione pacifista che è suicida innanzi all’aggressività crescente della Cina.
I due quarti più importanti del mondo si danno da fare. Un terzo nulla può fare, che è l’Africa e che è ben lontana dal potersi occupare del tasso di cambio o della guerra delle valute. Ma l’ultimo quarto, che è anche il più vecchio e glorioso, ossia l’Europa unificata dai trattati e dall’euro, continua a perseguire una linea tutta diversa dagli altri due quarti. Si bea, anzi, dell’alto valore dell’euro.
Ci sono economisti, generalmente quelli che stappavano champagne quando l’euro si creò, che pensano che la via dell’euro forte sia quella giusta per una crescita economica ottimale. Ce ne sono ovunque in Europa. Nessuno di loro, però, quando pensa al significato della parola ottimale la unifica sia con il concetto degli alti salari, sia con quello della piena occupazione. Per me questa è la crescita ottimale. Il problema, come è noto, è che l’unico Paese europeo che possa reggere l’alto tasso di cambio dell’euro è la Germania.
La ragione è semplice: ha un altissimo tasso di produttività del lavoro. Infatti, anche prima dell’euro, quando il marco era la moneta più cara del mondo, la Germania esportava la stessa percentuale del Pil di oggi: circa il 38%. Questo suggella l’egemonia teutonica sull’Europa. Negli ultimi dieci anni, però, anche in Germania le cose sono cambiate. Quel livello si mantiene non solo con un’alta produttività da alti investimenti tecnologici, ma anche con una frantumazione del valore della massa salariale, che con le malaugurate riforme Schroeder è stato frantumata in un’area ad alto valore e un’area di basso valore e quindi di basso potere d’acquisto.
Anche in questo caso al socialista Schroeder, che ha dimenticato i suoi ideali, allora si tributavano grandi onori. Oggi si cominciano ad avere dei dubbi. Infatti, il mercato interno tedesco non è più quello di una volta: è più ristretto e non può colmare i vuoti provocati dall’abbassamento del commercio mondiale per effetto della recessione globale in corso.
Non dico nulla sul disastro che l’alto valore dell’euro causa sulle imprese non tedesche (salvo che per quelle scandinave, che sono un mondo a parte). Tutte sono con l’acqua alla gola. È inutile dire che devono recuperare sul fronte della produttività, sinonimo di competitività: i nani non diventano giganti per decreto, soprattutto se a emanarli sono i professori delle varie Bocconi d’Europa e del mondo.
C’è un rimedio? È semplicissimo: seguire l’esempio di Abe. Ma questo vorrebbe dire abolire la Commissione europea, dare poteri al Parlamento, eliminare l’indipendenza della Banca centrale europea e porla sotto un controllo di un ministero europeo dell’Economia… Che accade? Mi ero addormentato e stavo sognando.