Non c’è niente da fare, è più forte di loro. Gli americani hanno tanti pregi, ma un difetto enorme: non traggono mai insegnamento dai propri errori. Ecco quindi che, inebriati dalla messe di liquidità garantita dalla Fed e dal clima di rally azionario che l’intervento della Banca centrale ha innescato facendo lievitare artificialmente il prezzo dei titoli, si torna a fare cosa? A piazzare derivati subprime come se non ci fosse un domani!
Nel 2007, quando la bolla immobiliare e del credito era al suo massimo in attesa dell’esplosione, l’amore dichiarato di Wall Street erano i cosiddetti cdo – collateralized debt obligations – ovvero il Frankenstein di tutte le cartolarizzazioni, robaccia da cui stare distanti ma che in quell’epoca di vacche grasse ormai troppo munte, prometteva di strappare uno straccio di rendimento in grado di soddisfare l’avidità generale. All’epoca, però, c’era ancora un minimo di morale e i prodotti venduti avevano almeno come collaterale degli immobili, visto che quei geni delle agenzie di rating dicevano che il prezzo non sarebbe mai più crollato, ma mai i prestiti personali, anche perché furono proprio questi ultimi e il loro utilizzo geneticamente modificato a innescare la crisi di fine anni Novanta, quella che portò alla bancarotta di Conseco Finance.
Oggi, invece, la disperazione-euforia innescata da Ben Bernanke sta rendendo possibile ciò che si credeva degno dell’iperuranio. La Springleaf Financial, già American General Finance, gigante del credito al consumo, sta infatti per emettere immondizia per 604 milioni di dollari sottoforma di prestiti per 662 milioni assicurati da assets come automobili, barche, arredamento e gioielli, alcuni dei quali non hanno nemmeno collaterale. Il tutto, tramutato in un bel Abs, asset-backed security. Insomma, in tempi in cui le emissioni legate a prestiti per l’auto, la carta di credito o i prestiti studenteschi salgono e portano gli investitori a gettarsi sul fronte del debito pubblico per strappare un rendimento minimo, arriva sempre il momento in cui lo yield pagato dai Treasuries diventa insufficiente e per garantirsi un extra si fa come dagli strozzini: si usano argenteria e altre fonti di ricchezza privata come garanzia per una bella cartolarizzazione.
Alla Springleaf si dicono certi che sarà un successo, peccato che dando bene un’occhiata alla cifre e ai termini del contratto per questo prodotto, si rimane vagamente interdetti dalla qualità degli assets che stanno dietro l’operazione. Quasi 191mila dei prestiti che stanno dietro il prodotto Springleaf hanno un rating di credito Fico (quello che negli Usa divide la classi di merito per solvibilità) pari a 602, valutazione che è in linea con moltissimi degli Abs subprime legati al mercato automobilistico di recente memoria (ricorderete quando smontai la barzelletta in base al quale il mercato automotive Usa non fosse in crisi, stante le cifre da record gonfiate da piazzali dei rivenditori stracolmi e credito al consumo garantito a cani e porci). Ma non è tutto visto che il coupon medio del 25% sui crediti personali Springleaf è di gran lunga più alto anche dei crediti per acquisti di automobili definiti “profondamente subprime”, probabilmente anche perché non esiste collaterale per almeno il 10% dell’emissione.
Mediamente, quando si tratta di un rating A, si parla di rendimenti del 2,5%, due punti percentuali sopra il benchmark dei tassi: addirittura, su scadenze più lunghe ci si deve accontentare del 1,77%. Insomma, qui siamo di fronte a cartolarizzazioni che dietro di sé non hanno immobili, ovvero la garanzia di poter pignorare o porre in liquidazione l’asset sottostante al contratto: o ci sono beni di dubbio valore o addirittura nessun collaterale. Capite da soli che è un lancio da 10mila metri senza paracadute. Ovvio, le dimensioni di questi scempi finanziari sono ancora limitate e quindi senza portata sistemica, ma il fatto che sempre più classe medio-bassa americana sia così strangolata dai debiti, la prossima bolla è quella dei prestiti agli studenti, da lanciarsi in operazione di pura e semplice follia finanziaria, la dice lunga su quale sia la reale divaricazione tra “Wall Street” e “Main Street”, nonostante le belle parole e le tante promesse del presidente Obama, il quale oggi si lancia nell’operazione demagogica di denunciare Standard&Poor’s per la crisi, dimenticandosi che molti azionisti dell’agenzia di rating sono sostenitori e finanziatori della sua campagna elettorale a molti zeri. Si cartolarizza di tutto, anche l’aria, senza rating di credito e alla faccia delle regole più stringenti che l’America aveva promesso dopo lo scoppio della crisi.
D’altronde, la scorsa settimana negli Usa si è tenuto l’annuale meeting dell’American Securization Forum, simposio di “deviati mentali” dove 5500 investitori e promotori finanziari professionisti hanno discusso con eccitazione delle nuova frontiere dell’immondizia da tramutare in oro. Intervistato ieri da La Stampa, il professor James Kenneth Galbraith, economista del dipartimento di Studi governativi dell’Università del Texas e membro della World Economic Association, ha detto senza tanti giri di parole riguardo l’ultima trovata di Obama: «Senza dubbio un’iniziativa di impatto dal punto di vista simbolico, anche se non si tratta della prima nel suo genere. Il punto è che a questa denuncia deve essere fatto seguito con una serie di altre azioni forti, cosa che sino adesso è mancata. L’operato dell’Amministrazione in tema di regolamentazione e vigilanza finanziaria è stato troppo lacunoso, addirittura debole. Speriamo che questo sia l’inizio di una fase più incisiva».
Per forza, come faccio a chiedere voti e dollari a chi poi minaccio di rovinare come primo atto del mio secondo mandato? Il Paese dove proprio i Democratici hanno eliminato il Glass-Steagall Act non può fare a meno di Wall Street, può solo cercare di limitare i danni e scendere a patti. Altrimenti, il primo a dover pagare per la crisi dovrebbe essere Ben Bernanke, non Standard&Poor’s.