È una vicenda molto complessa e delicata quella delle presunte tangenti agli algerini e, in ordine di tempo, ai nigeriani, che ha investito direttamente l’Eni, coinvolgendo anche l’amministratore delegato, Paolo Scaroni, cui è stato notificato dalla Procura di Milano un avviso di garanzia per corruzione internazionale. Dentro all’inchiesta c’è l’operato della Saipem, una controllata dell’Eni che si occupa di infrastrutture per la ricerca nei giacimenti petroliferi ed energetici. Il top management di Saipem, secondo la procura, avrebbe agito dopo il “via libera” dell’Eni, quindi di Scaroni, che però smentisce.



In sostanza per ottenere appalti in Algeria per un valore di quasi 13 miliardi, si parla di una “stecca” di 196 milioni di euro che, attraverso i soliti giri internazionali di società, finanziarie, banche e via dicendo, a Honk Kong o altrove, sarebbero poi ricaduti nelle tasche di svariati mediatori algerini.

Ma c’è una domanda in più che ci si pone, o almeno che si pone la procura milanese: questo “fiume” di denaro legato agli appalti, è rientrato anche in Italia e a beneficio di qualcuno? Le indagini e l’inchiesta sembra concentrata su questo punto, oltre all’ipotesi del reato di corruzione internazionale.



Quando partono queste inchieste si ha sempre una sensazione “strana”, con un retrogusto di intrighi e veleni che non si sa dove portano e dove vanno a finire. La storia degli ultimi cento anni, legata al problema dell’energia e del petrolio, è quasi sempre collegata a grandi interessi internazionali, a sotterranei contatti tra i Paesi produttori e i Paesi importatori. E dove ci vuole poco a comprendere che, nei grandi contratti di interesse internazionale, si fiuta non solo aria di politica estera “fatta sul campo”, ma anche di interventi fatti dai servizi segreti.

Per farci un’idea di quello che potrebbe essere accaduto, abbiamo parlato con un bravo giornalista e ora anche professore di Economia a Urbino, Donato Speroni. Cinque anni fa Speroni ha scritto un libro di rara bellezza, quasi un thriller, che parlava di uno scandalo legato al petrolio che investì l’Italia tra il 1979 e il 1980 e modificò anche gli equilibri politici italiani. Il libro si intitola L’intrigo saudita e ricostruisce la famosa storia dell’Eni-Petromin che costò l’incarico al presidente dell’Eni dell’epoca, Giorgio Mazzanti.



Speroni, si può accostare quella vicenda a quella che si è aperta in questi giorni, con il top management di Saipem e l’amministratore delegato, Paolo Scaroni, che vengono indagati?
Quella fu una vicenda veramente complessa e per certi versi strana. Il mediatore iraniano, il ruolo dei servizi segreti, il contratto parallelo, l’inserimento a un certo punto del capo della P2, Licio Gelli, che viene a conoscenza del contratto. A quell’epoca non c’era o non si badava al reato di corruzione internazionale, quindi lo scandalo si fondava sull’ipotesi che i soldi dovessero rientrare in Italia, nella disponibilità di uomini politici italiani, oppure di lobbies di potere che intendevano impossessarsi niente meno che del Corriere della Sera.

Ma alla fine la verità non è mai venuta fuori veramente.

In effetti quei soldi non sono arrivati ai partiti politici italiani e Mazzanti fu ingiustamente rimosso dal suo incarico. In più, saltò la maxifornitura dei sauditi che non riconobbero il contratto. Rischio che anche oggi si può verificare, in caso si fosse alla presenza di un contratto parallelo in questa ultima storia algerina.

Le ipotesi su quella vicenda ogni tanto ritornano alla memoria.
Intervenne anche il presidente alla Repubblica Francesco Cossiga. Rivelò che i servizi segreti italiani avevano scoperto che la tangente era destinata ai sauditi per avere poi qualche altra destinazione.

Un grande intrigo quindi. Ma era comune, in quell’epoca, che ci fossero simili retroscena?
Basta fare un cenno solo a quello che disse un uomo come Eugenio Cefis, quando parlò del gasdotto realizzato con i sovietici tra Italia e Unione Sovietica: era una sequenza di tangenti, tutto un lavoro che prevedeva continuamente tangenti.

Ritornando all’affare Eni-Petromin, ci possono essere affinità con l’attuale storia della Saipem e dell’Eni in Algeria?
Ci sono alcune differenze. La prima è che il “numero uno” dell’Eni oggi non è coinvolto come allora fu Mazzanti. Qui in prima linea c’è la Saipem, la controllata dell’Eni che stipula il contratto e, nell’ipotesi, anche un contratto parallelo. In secondo luogo c’è oggi l’esistenza del reato di corruzione internazionale, che allora non c’era. In terzo luogo, l’ipotesi portante dell’affare Eni-Petromin stava proprio nell’accusa che i soldi della tangente sarebbero stati destinati a protagonisti della politica italiana. Qui si sta affacciando solo adesso questa ipotesi.

Su una simile vicenda di un contratto internazionale come questo, alla fine c’è il rischio che salti un affare economico. Occorrerà vedere se l’affare fosse conveniente anche a costo di una tangente. Il che pone un’altra domanda: forse i magistrati sono troppo zelanti?
Non saprei dare una risposta su tutto questo. Poi i magistrati sono costretti a intervenire di fronte all’ipotesi di un reato, come quello di corruzione internazionale.

(Gianluigi Da Rold)