Ma quanto conta lo spread? Forse meno di quel che si crede. Certo, l’indicatore, nel recente passato, è stato un segnale prezioso per misurare la “febbre” del Paese. Ma oggi, grazie alla promessa di intervento della Bce, lo spread non è più lo specchio fedele per dare una misura della sofferenza dell’Italia, soprattutto in relazione al malessere generale della zona euro. La promessa di intervento da parte della Bce, attraverso l’attivazione della rete di interventi Omt, ha cambiato le carte in tavola. L’azione di Mario Draghi, in un certo senso, ha “drogato” il paziente grazie a un formidabile deterrente antispeculazione. Di conseguenza, le oscillazioni dello spread dopo i risultati elettorali sono state assai meno sensibili. Così come le conseguenze immediate sull’euro.



È la tesi che emerge dal primo dei report che Mediobanca Securities ha dedicato alle elezioni italiane, ancor prima del voto. “Crediamo – si legge – che lo spread abbia perso molta della sua rilevanza come indicatore della percezione che il mercato ha del vero rischio di solvibilità dell’Italia”. In altri termini: la finanza internazionale è più attenta a cogliere nel breve/medio termine i benefici temporanei di una situazione che gode di una protezione esterna piuttosto che a speculare sulla capacità del Paese di mantenere la sua posizione di membro del G7 e partner dell’eurozona. Ovvero di difendere il livello di benessere costruito nel dopoguerra e già in parte depauperato.



La tesi trova conforto nella pioggia di commenti in arrivo dalle grandi case di investimento in questi giorni agitati. Certo, l’Italia vive una situazione complicata, ma, come titola un report del Credit Suisse “non tutto è così brutto come sembra”. Ovvero, se si vanno a leggere i consigli sugli acquisti, sia in Piazza Affari che nel mercato dei titoli pubblici le cose buone da comprare non mancano, purché i prezzi siano convenienti. Ma attenzione: meglio concentrare gli acquisti sulle scadenze fino a tre anni, quelle che godono della garanzia della Bce. Meglio non spingersi oltre sul fronte del debito pubblico.



Lo stesso vale per le azioni delle banche. Non solo gli istituti italiani sono i più esposti nei confronti dei prestiti Ltro promossi da Francoforte, ma sono in pratica gli unici che non hanno proceduto a rimborsi anticipati. Ovvio prevedere che il grosso dei pagamenti avverrà alla scadenza, nel 2015. Fino ad allora, grazie alla relazione con lo spread ci potranno essere occasioni di acquisto, nella presunzione che l’Europa farà il possibile per raffreddare lo spread (a questi livelli insostenibile per Italia e Spagna). Dopo si vedrà.

Insomma, ci sono le premesse perché, come scrive Antonio Guglielmi, responsabile della ricerca di Mediobanca Securities, si possa passare “dalla commedia all’italiana alla tragedia greca”. Come molti temono in Piazza Affari, ove i broker hanno imparato a leggere con attenzione particolare i report di Mediobanca securities nel febbraio di un anno fa. Allora Guglielmi, analista pugliese con una lunga carriera nelle banche internazionali che opera da Londra, pubblicò un’analisi spietata sullo stato di salute delle banche italiane, dai forzieri zeppi di Btp e poveri di capitale e di impegni di qualità. È probabile che in quei giorni siano piovute telefonate di fuoco in piazzetta Cuccia da parte dei banchieri di casa nostra. Magari, anzi è probabile, pure dalla sede del Monte Paschi. I fatti hanno dimostrato che l’analisi di Guglielmi era tanto corretta quanto coraggiosa: quasi un unicum in un settore dove troppo spesso, per opportunità politiche, si è preferito evitare i giudizi più severi.

Meglio diffidare, insomma, dello spread o delle alchimie che, tra Bruxelles, Berlino e Francoforte, verranno escogitate per anestetizzare il rischio Italia. “L’estrema delicatezza del momento sta già inducendo la Germania ad allentare vistosamente la pressione sui partner – nota Alessandro Fugnoli di Kairos – La Spagna ha potuto produrre a consuntivo un disavanzo 2012 superiore al 10% e da Berlino sono arrivate solo espressioni di incoraggiamento e fiducia”. La Francia si accinge a sforare senza alcun pentimento la soglia del 3% che è ormai evaporata dietro la formula del “disavanzo strutturale”. Lo stesso accadrà, dopo le solite manfrine, per l’Italia: l’Europa non può permettersi, almeno per ora, che la frana del Bel Paese metta a nudo la fragilità del sistema. Ma, nel frattempo, l’Europa finanziaria prenderà le sue distanze da un Paese che rischia di diventare sempre meno interessante anche dal punto di vista dello shopping. Salvo che per il lusso e gli scampoli dell’alimentare.

Nel frattempo, in pratica il mondo comprerà altro tempo con nuove ulteriori dosi di analgesici monetari e, in Europa, anche fiscali. Con il risultato paradossale che il trionfo di Grillo, con la carica ansiogena che in altri momenti avrebbe portato al crollo delle Borse, stavolta indurrà le banche centrali a proseguire sulla strada degli incentivi monetari e a sostenere così il rally dei listini. Ma per quanto tempo? E con quale finale? Tocca agli italiani scegliere. O si fanno le riforme in grado di rilanciare la competitività delle imprese, che cresce ovunque Spagna e Grecia incluse, o prima o poi la nave si incaglierà.

Non è questione di formule politiche, ci avvertono i mercati, e nemmeno di semplice “stabilità”, formula buona solo per i liquidatori del nostro patrimonio che hanno bisogno di tempo per finire il lavoro. Stavolta è davvero questione di contenuti, non di slogan. Ovvero, se per crescere non si possono fare più debiti è necessario attrarre investimenti da fuori. Ma questi arriveranno il giorno dopo l’approvazione di leggi adeguate, non un giorno prima. E solo con la garanzia che la burocrazia o un tribunale amministrativo o civile non fermerà il processo. Altrimenti non ci resterà che vendere quel poco di argenteria che ci resta ancora. E non lamentiamoci se i giovani si opporranno.

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