Da anni, come è comprensibile, l’attenzione generale è concentrata sul debito pubblico italiano. Minore attenzione, almeno a livello dell’opinione pubblica, è stata dedicata al debito delle imprese pur salito alla quota non tranquillizzante dell’85% del Pil. Una percentuale che contrasta con la montagna di cash accumulata dalle imprese Usa presenti nell’indice S&P, ma anche con la situazione assai più robusta delle aziende tedesche presenti nell’indice Dax. Senza dimenticare che, in entrambi i casi, il costo di finanziamento reale per il sistema produttivo è inferiore di 3-4 punti percentuali.



A fronte della rete protettiva che la Bce ha steso a difesa del debito pubblico, poi, si segnala il vuoto di interventi sul fronte dell’economia produttiva: le banche, a corto di capitali, hanno tagliato nel 2012 i prestiti alle imprese per 38 miliardi, un trend che tende ad accelerare nei primi mesi del 2013; le amministrazioni pubbliche, tra lungaggini burocratiche (molti enti non sono in grado di garantire la certificazione dei crediti prevista per legge) e limiti di cassa, continuano a non pagare l’enorme debito accumulato verso le imprese, almeno 71 miliardi di euro.



Si può spiegare così la ragione dell’andamento dei listini: sul fronte del debito pubblico, i creditori si fidano della controparte comunitaria, cioè la Banca centrale di Francoforte; a Piazza Affari, ormai scesa a poco più di 300 miliardi di valore, cresce lo scetticismo sulla possibilità per molte imprese di far fronte all’indebitamento crescente senza l’appoggio tradizionale del sistema bancario. Il risultato, solo all’apparenza sorprendente, è che la crisi politica morde assai di più la componente privata dell’economia italiana che non la finanza pubblica. A conferma che nessuno ormai può dirsi immune dal contagio.



Nel migliore dei casi, vedi le navicelle del made in Italy del lusso abbigliamento che continuano a mietere successi, sale il pressing dei grandi gruppi internazionali per comprare quel che resta delle eccellenze del settore. Altrove, vedi Fiat, la terapia consiste nell’accelerare l’approdo verso una realtà globale in cui, per scelta quasi obbligata, il ruolo dell’Italia verrà ridimensionato (o peggio, se prevarranno gli slogan più populisti). Alcune roccaforti inespugnabili, vedi le utilities, segnano il passo, come hanno dimostrato i conti, non esaltanti, di Enel e di Telecom Italia.

Non a caso, in questa cornice, sta diventando di moda l’ibrido, una forma di finanziamento alle imprese a metà strada tra il capitale azionario e l’obbligazione. Uno strumento che costa assai di più, ma ha due pregi: viene calcolato come capitale dalle agenzie di rating (quindi non fa salire il costo delle obbligazioni normali); non sposta gli equilibri azionari, quindi non comporta esborsi per i soci di maggioranza. Il guaio è che le società debbono accettare interessi ben più elevati: Telecom Italia ha chiuso un ibrido, durata 60 anni, a poco meno dell’8%.

Per carità, gli ibridi (come i derivati) non vanno giudicati farina del demonio. Quando si tratta di finanziare un’acquisizione, come accadde nel 2006 per Lottomatica/Gtech o potrebbe accadere per Fiat/Chrysler, l’ibrido presenta numerosi vantaggi, non ultimo quello di proteggere i vecchi obbligazionisti dai rischi di un’operazione non brillante. Ma il discorso cambia se il ricorso all’ibrido serve a sostituire altri canali di finanziamento o il mancato apporto nell’azionista.

Certo, il quadro è, al solito, a macchia di leopardo. I mercati mostrano di premiare le società che hanno scelto una strategia chiara di crescita. In quei casi poco importa, come dimostra il caso Generali, il costo delle azioni di pulizia. Inutile rinviare a nuovo, nella speranza di una ripresa che per ora non si vede, le inevitabili ristrutturazioni. Il balzo in avanti del Leone di Trieste, assai ben comprato in Borsa, può essere la bussola per affrontare il problema dei problemi: l’esigenza di ripulire e rafforzare il sistema bancario. 

I conti sono noti. Dopo cinque mesi di ispezioni nelle 20 banche più importanti, la Banca d’Italia ha emesso il suo verdetto: per mettere al riparo il sistema dai guasti prodotti dalla recessione, ci vogliono 21 miliardi a fronte di incagli, sofferenze e fallimenti dei clienti. Non c’è stupirsi, di fronte a una cifra così enorme, che sia cresciuta la protesta strisciante nei confronti di Ignazio Visco. Così si getta via il bambino con l’acqua sporca, tuonano i banchieri più coinvolti, cioè i piccoli e medi (Intesa e Unicredit sono, parzialmente, al sicuro). Vero, ma via Nazionale ha ottime ragioni per tener duro. Innanzitutto, la richiesta di andar a verificare la solidità delle banche italiane dopo anni di recessione arriva dal Fmi, oltre che dall’Eba. Ed è una richiesta, alla vigilia delle trattative per l’Unione bancaria che bisogna rispettare.

Ci sono ottime ragioni per rafforzare la diga delle banche alla vigilia di mesi che potrebbero essere tempestosi: 1) le banche italiane sono assai esposte (180 miliardi) sui titoli di Stato; 2) il downgrading di Fitch sul debito pubblico potrebbe, a giorni, avere un effetto cascata sui bond di Intesa e Unicredit; 3) un declassamento dell’Italia, che resta appesa alla A grazie all’agenzia canadese Dbrs, farebbe aumentare di molto il costo della provvista presso la Bce; 4) Bankitalia preme e un adeguamento degli immobili in garanzia e in portafoglio ai valori di mercato; 5) la nave già scricchiola. Accanto a istituti solidi ci sono due grandi banche (Mps e Carige) “non investment grade”, mentre cattive sorprese sono arrivate dal leasing di Ubi e del Banco Popolare. 

In questo quadro qualsiasi indugio rischia di aggravare la situazione. Per mettere il sistema in sicurezza occorrono interventi tecnici e bilancistici, ma anche il ricorso agli aiuti di Bruxelles per dare il via all’operazione pulizia: le partite incagliate devono finire, come già successo in Spagna, in una “bad bank”. 

Bruxelles non potrebbe dire di no, visto che l’Italia si è impegnata per 125 miliardi nel finanziamento del fondo comunitario Esm. Ma per ottenere il via libera occorre un governo e una volonta politica ben definita. Far decollare una bad bank, infatti, significa intervenire a fondo sugli assetti del credito, a partire dal caso Mps, ma non solo. Una scelta traumatica, destinata a tagliare il cordone che lega politica e credito. Ma anche a liberare le risorse necessarie per ripartire.

E, soprattutto, un segnale chiaro ai mercati che stavolta, al di là di strepiti o show, in Italia si vuol fare sul serio. Basta, insomma, con le soluzioni ibride per guadagnare tempo. O affidare le speranze di ripresa al mito dell’export, da solo insufficiente a far decollare un Paese delle dimensioni dell’Italia.