Il governo britannico mette la freccia e tenta il sorpasso su tutte le piazze occidentali per tramutarsi nell’hub a livello globale per quanto riguarda la finanza islamica, nella speranza di poter beneficiare del crescente mercato di prodotti finanziari legati ai dettami della sharia. Una task force guidata dal segretario al Tesoro, Greg Clark, e dalla baronessa Warsi, il ministro degli Esteri, si è instaurata con l’intenzione di mostrare il Regno Unito come scelta privilegiata per il mondo islamico per investire e fare business. Il tutto, in vista del prossimo ottobre, quando centinaia di influenti personalità del mondo islamico si incontreranno a Londra per il primo World Islamic Economic Forum, il primo simposio del genere a tenersi nel mondo occidentale. In un comunicato, Clark ha dichiarato che «la priorità del governo è assicurarsi che la Gran Bretagna sia aperta al mondo del business. La Islamic Finance Task Force è il perfetto esempio della nostra ambizione di promuovere Londra come principale centro finanziario mondiale per attirare investimenti all’avanguardia».



Questa iniziativa, finalizzata a sviluppare le credenziali della City per il banking islamico e destinata a porsi in diretta concorrenza con altri hub globali come Bahrain, Dubai e Malesia, arriva due anni dopo l’abbandono da parte del governo britannico del progetto di emissioni di obbligazioni conformi ai dettami della sharia, scelta dettata dalla bocciatura da parte del Debt Management Office, a detta del quale l’operazione «non avrebbe offerto valore per l’investimento». Grazie al supporto di ricchi e liquidi fondi di investimento dell’area del Golfo, la finanza islamica ha performato relativamente bene nel corso della crisi e viene vista come uno dei settori con maggiori possibilità di crescita. Standard& Poor’s ha previsto che il giro d’affari per i prodotti conformi alla legge coranica raddoppierà fino a 3 triliardi di dollari entro il 2015, mentre il consulente Oliver Wyman stima che per soddisfare la domanda entro il 2020 nasceranno almeno 150 nuove istituzioni finanziarie islamiche a livello globale.



Ma quali sono le basi della cosiddetta finanza islamica? Al centro di questo tipo di business religioso c’è la credenza che il denaro non abbia valore intrinseco e per una questione di fede un musulmano non può prestare denaro o riceve denaro da qualcuno aspettandosi o dovendo pagare un benefit, un interesse. La riba, infatti, non è consentita dalla legge coranica. Per l’Islam, fare soldi dai soldi è vietato, la ricchezza può essere generata soltanto attraverso un commercio legittimo o un investimento in assets. In base alla finanza coranica, è essenziale che il rischio sia coinvolto in ogni attività di scambio, ogni guadagno relativo al trading deve essere diviso tra la persona che offre il capitale e la persona che offre l’expertise. Insomma, una vera e propria sfida. Ma Londra non è nuova a questo tipo di esperienza, visto che attraverso la Borsa britannica sono stati emessi sukuk, ovvero bond che non contemplano il pagamento di interessi, per un controvalore di 34 miliardi di dollari.



La concorrenza, però, è spietata, visto che Kuala Lumpur sta lavorando per permettere ad aziende straniere di emettere sukuk al di fuori del loro mercato interno e Dubai ha annunciato in gennaio che rivedrà la propria regolamentazione per attrarre emissioni di sukuk e trading islamico. I sukuk sono strutturati per pagare un tasso di profitto fisso invece che un coupon e quasi sempre sono legati a progetti di real estate o infrastrutturali. Un mercato ormai non più marginale, visto che stando a dati resi noti la scorsa settimana da Standard&Poor’s, le emissioni a livello globale sono cresciute per il quarto anno di fila nel 2012, raggiungendo un valore di 138 miliardi di dollari. Per Paul-Henri Pruvost, analista di S&P’s, «le necessità di finanziamento e i grandi investimenti infrastrutturali in Malesia e nel Golfo, combinati con il miglioramento del sentiment globale per gli investitori, sono la chiave per capire il momentum positivo dietro al mercato dei sukuk. Per questa ragione, noi pensiamo che gli emittenti, soprattutto del Golfo, saranno ben felici di poter contare su un mercato con emissioni più grandi e maggiormente commisurate con il potenziale che suggeriscono le dimensioni dei loro assets».

Chi, invece, alla luce di potenzialità enormi, non sta sfruttando le possibilità offerte dalla finanza islamica è la Russia. Nel 2009 e nel 2010, due sondaggi condotti nel Paese hanno infatti confermato che il 97% delle persone interpellate, islamiche o con un background islamico, sarebbe interessata a poter sfruttare i servizi di una banca islamica. Di quel 97%, il 40% era residente a Mosca. Nonostante non sia formalmente permessa in America, così come in Russia, la finanza islamica sta crescendo a un tasso annuale tra il 15% e il 20%. I metodi per rendere questo business profittevole, infatti, esistono, nonostante i dettami della sharia sulla riba, l’interesse.

Un metodo lo illustra Farmida Bi, avvocato e socio alla Norton Rose LLP: «Ad esempio, le istituzioni possono condividere i profitti dei loro clienti attraverso regimi di joint venture o accordi di investimenti con i loro correntisti-investitori, in tal caso anche per la legge coranica l’istituzione bancaria ha diritto a una quota del profitto generato. Altrimenti, può ricevere una sorta di pigione attraverso un accordo di leasing oppure ancora ottenere un prezzo maggiore per una commodity che vende, rispetto al prezzo cui l’ha pagata». Attualmente, se un’azienda russa vuole vendere sukuk, può farlo, ma soltanto all’estero, presso Paesi dove il mercato dei bond islamici è regolamentato, come la Malesia appunto, oppure a breve, Londra: Mosca potrà ancora permettersi per molto di ignorare un business simile o arriverà a un compromesso che porti a una legislazione bancaria ad hoc?

Se la Russia si aprirà a questo business, certamente ne beneficerà sia l’occupazione che la diversificazione degli investimenti e gli investimenti esteri: stando a dati del Pew Forumon Religious and Public Life, la popolazione islamica in Russia è destinata a crescere dai 16,4 milioni del 2010 ai 18,6 milioni nel 2030. Inoltre, nulla vieta a chi non sia musulmano o non abbia un background islamico di usufruire di questo settore di business partecipandovi, offrendo quindi un database di clienti potenziali praticamente illimitato. Inoltre, molti esperti pensano che come reazione alla crisi globale, alla sbornia del capitalismo senza regole, agli scandali e alle scommesse sempre più rischiose in cui si lanciano le banche tradizionali e d’affari occidentali, la finanza islamica potrebbe avere un appeal “morale” e garantire una via diversa al business, destinata a camminare mano nella mano con il cosiddetto capitalismo etico.

Chi ha capito il potenziale di questo mercato, anche grazie al suo ruolo naturale, geografico e politico di ponte tra Oriente e Occidente è la Turchia, dove lo scorso settembre si è tenuta la prima emissione di un sukuk sovrano, atto che da molti è stato visto come l’apripista per consentire in un futuro prossimo molto vicino alle aziende turche di finanziarsi attraverso bonds islamici. Il governo turco ha emesso una prima obbligazione islamica da 1,5 miliardi di dollari, con una domanda che ha superato il controvalore dell’offerta di ben quattro volte: questo primo sukuk, nelle intenzioni del governo, servirà come benchmark per la prezzatura dei futuri bonds islamici nel settore corporate. Di più, nel Paese sta crescendo rapidamente anche l’interesse per un altro ramo del business legato ai dettami coranici, il takaful o assicurazione islamica.

In Turchia, stando a dati dello scorso giugno, operano solo quattro banche islamiche, con assets totali di 61 miliardi di lire turche (33,9 miliardi di dollari), un misero 4,8% di tutti gli assets bancari nazionali, mentre nel Stati del Golfo queste istituzioni detengono un quarto delle quote di mercato totali. Inoltre, il 34% dell’export turco nel 2012 si è indirizzato verso Medio Oriente e Nord Africa, quindi appare scontato che anche a livello finanziario e di investimenti esteri Ankara guardi in quella direzione, soprattutto per quanto riguarda il settore dell’emissione di debito. Inoltre, i sukuk potrebbero a breve aiutare le banche turche a raggiungere i requisiti di ratio del capitale necessari in base alle nuove regolamentazioni globali, visto che essendo i sukuk strumenti legati a un asset, in alcuni casi possono essere trattati come forma di capitale nei bilanci bancari, a differenza dei bonds tradizionali che sono debiti allo stato puro. Insomma, le banche possono emettere sukuk come prestiti sul capitale, in modo tale che possano essere considerati come equity nel ratio di capitale Tier 2.

E per quest’anno ci si aspetta la prima emissione di un sukuk corporate non finanziario nel Paese, soprattutto a livello interno, poiché se gli investitori internazionali vorranno avere certezza sul rating di credito a livello di investment grade, le aziende turche nel mercato interno potranno attirare investitori con sukuk denominati in lira turca. Il problema, almeno in Turchia, è di natura fiscale, visto che il sukuk in quanto tale presuppone due o più trasferimenti degli assets sottostanti – uno al momento dell’emissione e un secondo alla maturazione – e quindi può essere tassato più volte, rendendo l’investimento meno attraente: per ora, il governo turco ha esentato dalla tassazione multipla solo lo ijara sukuk, non altre strutture.

Certamente, però, un cambio di legislazione, anche a fronte dell’interesse e del successo della prima emissione sukuk, non pare impossibile, tanto più che i fondi pensione islamici, che già offrono prodotti conformi alla legge coranica, appaiono molto interessati a questi strumenti per diversificare il loro portafoglio di reddito fisso. Non è un caso che all’annuale KL Conference on Islamic Finance che si terrà oggi e domani a Kuala Lumpur in Malesia, l’argomento di dibattito sarà “Il ruolo della Turchia nel mercato del capitale islamico”.

 

P.S. Vi chiederete perché, dopo averne parlato tanto nei mesi scorsi, non ho affrontato il tema di Cipro, ora che è giunto sulle prime pagine di tutti i media. Nessun snobismo. Primo, mi è sembrato giusto occuparmi del tema della finanza islamica, proprio mentre si sta tenendo il più importante congresso mondiale sul tema. Poi, la volontà di scrivere qualcosa su Cipro quando sarà chiaro se la portata sistemica della scelta suicida compiuta da Ue, Fmi e Bce porrà a rischio l’intera eurozona subito (attraverso una spaventosa e generalizzata bank run nei paesi periferici, innescata proprio dai fallimenti delle banche cipriote, visto che dopo l’esproprio forzoso i circa 60 miliardi di dollari di cittadini e imprese russe a Cipro saranno liberi di andare altrove) o dal prossimo autunno (quando i nodi del debito faranno saltare il banco una volta per tutte).

Ieri si è tenuta una conference call dell’Eurogruppo per modificare l’impianto del salvataggio (il ministro dell’Economia tedesco Rosler ha proposto un’esenzione per i depositi sotto i 25mila euro e il contemporaneo aumento dell’aliquota per quelli sopra i 100mila), domani le banche cipriote riapriranno (forse), il Parlamento si sarà (speriamo) espresso sulla proposta di esproprio forzoso sui conti correnti e sapremo se la Russia – per tutelare i suoi connazionali – interverrà con un prestito.

A oggi posso dirvi solo tre cose. La prima è che il nuovo Presidente dell’Eurogruppo, interrogato sulla possibilità che una decisione simile possa essere presa anche per Grecia, Spagna e Italia in caso di necessità non ha detto no: si è limitato a dire che la questione non è al momento sul tavolo. La seconda: in un report pubblicato domenica, Commerzbank suggeriva (senza che nessuno glielo avesse chiesto) una patrimoniale del 15% sugli assets finanziari per abbattere lo stock di debito italiano. Infine, ieri i bonds tedeschi sono gli unici a essere andati in rally, beneficiando dello shock cipriota e spedendo il rendimento del titolo biennale sotto lo zero. Ah, scordavo: si comincia a parlare di una nuova ristrutturazione del debito greco, questa volta che coinvolga anche le detenzioni obbligazionarie della Bce. Bene, se alla distruzione del principio della libera circolazione del denaro e dell’intangibilità della proprietà privata, uniremo anche quella della seniority garantita ai bonds detenuti da investitori cosiddetti “ufficiali”, l’Ue è morta. Cipro è solo il canarino nella miniera.