In tempi di vacche grasse ci sarebbe da rallegrarsi per il calo dei prezzi. In tempi di crisi, c’è da preoccuparsi. Le stime preliminari dell’Istat sul mese di marzo rilevano come l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività, al lordo dei tabacchi, aumenti dello 0,3% rispetto a febbraio e dell’1,7% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. In sostanza, considerando che a febbraio l’aumento rispetto al 2012 era stato dell’1,9%, l’inflazione sta frenando. Per la sesta volta di fila. In particolare, a causa del calo dei prezzi dei Beni energetici non regolamentati. Gustavo Piga, professore di Economia politica presso la facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, ci spiega il senso di questi dati.



Come dobbiamo interpretarli?

Qualcuno potrebbe esultare alla notizia del calo dei prezzi. Mi spiego: tendenzialmente, i prezzi dei prodotti italiani sono più alti e crescono di più rispetto a quelli dei partner europei con cui solitamente perdiamo competitività, all’interno dell’area della moneta unica (soprattutto, con quelli dell’area dell’euronord). Questo, perché il nostro sistema è poco concorrenziale. Peccato che il rallentamento dell’inflazione, in questo caso, non sia affatto giustificato da un recupero di competitività.



Da cosa, allora?

La deflazione deriva da una domanda interna sempre più scarsa. E’ l’indicatore della drammatica difficoltà delle famiglie. E, di conseguenza, delle imprese. Se, infatti, le famiglie non domandano, le aziende non riescono a collocare i propri prodotti. Una situazione che caratterizza tutti i Paesi dell’area del sud, e che va monitorata costantemente.

Perché?

Tale situazione potrebbe risultare la causa principale di un’eventuale abbandono dell’area dell’euro. I movimenti politici fortemente contrari alla moneta unica si nutrono, del resto, dell’incapacità dei governi in carica di generare crescita. Per quanto ci riguarda, è vero che stiamo marciando verso una chiusura del differenziale tra i prezzi. Ma lo stiamo facendo senza aver risolto i problemi all’origine della nostra competitività, sul fronte del quale nulla è cambiato.



Cosa dovremmo fare?

Varare quella serie di riforme che rendano il nostro sistema produttivo in grado di generare meno costi.  

 

Normalmente, per rilanciare la competitività, i paesi tagliano i salari o svalutano. Evidentemente, in Italia non si può fare nessuna delle due cose. Che alternative rimangono?

Il vero motivo per cui i prezzi sono alti, è che non riusciamo a riformare una parte della nostra struttura industriale. Quella, in particolare, che non si confronta con i competitor internazionali ma che, al contempo, fornisce servizi ai settori produttivi che esportano. Mi riferisco, ad esempio, ai trasporti, alle comunicazioni o agli ordini professionali. Tali settori, a loro volta, sono condizionati da un’assenza di infrastrutture fondamentali. Tutto questo, si affronta con un dialogo sociale, con una durissima politica antitrust, e con investimenti infrastrutturali.

 

Quali sono le misure verosimilmente assumibili a breve?

Indubbiamente, confrontarsi, anche duramente, con le associazioni lavorative di alcuni settori, in questa fase non farebbe altro che gettare benzina sul fuoco. Al contrario, gli interventi infrastrutturali andrebbero realizzati fin da subito. Attraverso una massiccia iniziativa di spesa pubblica concordata con l’Europa. Si tratterebbe di un investimento volto a mettere in campo una serie di operazioni indispensabili (la manutenzione e la ristrutturazione di ponti, scuole, ospedali ecc…), a dotarci dei servizi di cui siamo privi e a rilanciare l’occupazione. Ovviamente, nell’ipotesi che, non appena l’economia si riprenda, il pubblico farebbe un passo indietro, per far subentrare il privato nei settori che normalmente gli competono. 

 

(Paolo Nessi)