Dunque, stando alle dichiarazioni rilasciate e alle minute delle riunioni, per il governo statunitense e la Fed la minaccia dell’inflazione non è qualcosa da prendere sul serio, sostanzialmente per due motivi auto-alimentanti. Primo, ammettere che il rischio inflattivo comporterebbe una revisione al ribasso delle stime di crescita del Pil (calcolare correttamente l’aumento reale del costo della vita avrebbe già portato il Pil dell’ultimo trimestre in negativo dell’1%). Secondo, la Fed ha come mantra il fatto di poter stampare miliardi di dollari senza colpire i consumatori perché l’inflazione è «contenuta e transitoria». Punto, lo hanno deciso loro, nonostante tra i compiti statutari della Fed vi sia proprio la stabilità dei prezzi e il mantenimento della fiducia nel sistema.
Il problema è che mentre la liquidità a cascata continua a far macinare record su record al mercato azionario, i grandi players stanno preparandosi all’esplosione della bolla di un altro mercato, quello obbligazionario. E sapete a causa di cosa? Dell’inflazione. A dirlo non è uno sprovveduto o un weimariano rigido, bensì Goldman Sachs e altre primarie istituzioni finanziarie, le quali in questi giorni stanno mettendo in guardia i loro clienti dal rischio di imminente implosione del mercato dei bonds. Gli analisti di Goldman Sachs l’hanno detto chiaramente: chi è esposto in fondi obbligazionari rischia di perdere anche la camicia. Alla base di questa previsione c’è la certezza che già da questa settimana cominceranno a risalire i tassi d’interesse e se col tempo torneranno allo yield medio storico del 3%, i prezzi per i bonds a lungo termine crolleranno.
Per Goldman, «un ribaltamento del premi di rischio verso la media storica del tasso nominale del 6% (3% di tasso reale e 3% di inflazione), potrebbe portare con sé perdite su un portafoglio con bond di durata quinquennale del 25% e più», stando all’analisi di Robert D. Boroujerdi, analista equity. Ma anche la Finra ha messo in guardia gli investitori dal fatto che «in caso di aumento dei tassi d’interesse, i bonds – soprattutto quelli con lunga durata e basso tasso d’interesse – potrebbero andare incontro a significativi cali di prezzo. Un bond con durata decennale potrebbe perdere il 10% secco in caso di aumento dei tassi dell’1%». Inoltre, a fornire un’indiretta conferma a questi timori ci pensa l’atteggiamento delle banche centrali in fatto di investimenti, visto che nel 2012 gli istituti bancari centrali hanno visto i loro acquisti di oro salire del 17% rispetto al 2011 a qualcosa come 534,6 tonnellate, stando a dati del World Gold Council. Si tratta del livello più alto di acquisti da parte di banche centrali dal 1964, con gli acquisti nel quarto trimestre del 2012 a quota 145 tonnellate, su del 9% rispetto allo stesso periodo del 2011 e ottavo trimestre consecutivo di acquisto.
Insomma, si stampa come se non ci fosse un domani, si nega l’inflazione, ma, stranamente, ci si riempie d’oro: e lo si fa con incrementi molto rapidi negli acquisti, almeno stando a dati dal 2010 – anno da cui le banche centrali sono diventate acquirenti netti – a oggi. Nel 2010 acquistarono 77 tonnellate, nel 2011 ben 457 e lo scorso anno 535: insomma, dal secondo trimestre del 2009 sono state accumulate circa 1000 tonnellate d’oro, per un valore di 56 miliardi di dollari. Noccioline rispetto ai 10 triliardi di dollari di nuova moneta stampata dalle banche centrali dal 2007 a oggi ma un qualcosa che rimanda comunque segnali di trend, visto che fino al 2010 e per decenni le banche centrali sono state venditrici nette d’oro. Ma attenzione, che la situazione statunitense sia sulla strada del disastro, lo testimonia una frase di Jim Cramer della Cnbc – «Sappiamo tutti che le cose andranno a finire male, ma nel frattempo possiamo fare un po’ di soldi» – e alcune cifre che riguardano il rally azionario made in Fed. L’ultima volta che l’indice Dow Jones chiuse una seduta ai livelli esatti di massimo storico toccato lunedì (14164,5) era il 9 ottobre 2007 – mentre il massimo storico intraday di 14198,10 toccato l’11 ottobre 2007 è stato polverizzato martedì raggiungendo quota 14275,77, per poi chiudere la seduta 14265 – ma quali erano le altre condizioni macro, micro e variabili di mercato rispetto a quelle degli Usa attuali?
Vediamo, nel 2007 la crescita del Pil era al +2,5%, ora al +1,6%; i disoccupati erano 6,7 milioni, oggi sono 13,2 milioni; la percentuale di partecipazione alla forza lavoro era del 65,8%, oggi è del 63,6%; il numero di americani che riceve un sussidio statale mensile per comprare cibo era di 26,9 milioni, oggi è di 47,69 milioni; lo stato patrimoniale della Fed era di 0,89 triliardi di dollari, oggi è di 3,01 triliardi; la ratio debito/Pil era del 38%, oggi è del 74,2%; il deficit Usa era di 97 miliardi di dollari, oggi è di 975,6 miliardi; il debito totale era di 13,5 triliardi di dollari, oggi è 16,43 triliardi; il debito privato era di 13,5 triliardi di dollari, oggi 12,87 triliardi; la fiducia dei consumatori era a 99,5, oggi è a 69,6; il rating di S&P’s era AAA, oggi è AA+; il Vix era al 17,5%, oggi è al 14%; il rendimento del Treasury decennale era del 4,64%, oggi è dell’1,89%; l’euro/dollaro era a 1,4145, oggi è a 1,3050; l’oro costava 748 dollari l’oncia, oggi 1583 dollari; il volume di scambi giornalieri a Wall Street era di 1,3 miliardi di azioni, oggi di 545 milioni.
Cosa sia successo un anno dopo e da cosa fu reso possibile quel boom lo sappiamo tutti, il problema è che oggi la storia si sta ripetendo ma con dati macro già peggiorati tantissimo e quindi con capacità di assorbimento dello shock molto, molto più limitate di allora. Nel 2007 furono i subprime, nel 2013 potrebbero essere i soldi facili della Fed: cambia la causa ma la conseguenza rischia, purtroppo, di essere la stessa. E se si innesca prima la sell-off obbligazionaria per i tassi e poi quella azionaria per l’esplosione della bolla di overshooting, in caso la Fed smetta di pompare liquidità, arrivederci patria del libero mercato.
Guardate questi grafici e guardate la similitudine di appetito dei mercati a livello temporale: siamo in piena fase pre-crisi Lemhan Brothers.
P.S.: L’instabilità politica italiana non sembra turbare più di tanto, per ora, i mercati. In compenso, sta cementando tra gli analisti una convinzione: il fatto che un’economia forte come quella italiana (il cui problema non è né il deficit – il più piccolo dopo quello tedesco nell’eurozona – e nemmeno il debito, visto che è sì grande ma abbastanza stabile e storicamente sostenibile, bensì la perdita di competitività e l’aumento del costo per unità di lavoro) abbia inviato un segnale anti-austerity così politicamente detonante potrebbe costringere la Bce a muoversi. Un sondaggio Reuters della scorsa settimana compiuto tra 55 economisti, ha visto 44 di loro dichiararsi quasi certi che l’instabilità politica italiana farà crescere le possibilità di un’attivazione del meccanismo Omt, ovvero il cosiddetto “firewall” anti-spread della Banca centrale europea. Ma se l’Italia dice no all’austerity, quindi ai vincoli imposti da Francoforte per attivare l’Omt, come si spiega il risultato di questo sondaggio? O gli economisti hanno fatto cortocircuito oppure, stante la delicatezza della situazione, la Bce dovrà comprare e comprare senza tante condizioni. Insomma, fare la Fed.